Dopo il peccato della mela, “ecco arrivò il Signore e disse: — Vi caccio, quanto è vero Dio —. Ed Eva suggerì piano ad Adamo: — Diciamogli che siamo atei! —. Ma Adamo scosse la testa: — Non posso; lo conosco personalmente —“.

Così racconta la barzelletta di un comico che, con rifacimenti dissacranti, punzecchia molto là dove fa male: ai cristiani che hanno la Bibbia, ma non hanno la Parola; e a quegli adulti battezzati che si ritrovano un’anima da struzzo: testa sotto la sabbia quando imperversa il difficile senso della vita. Ci si sottrae, si dichiara che si era da

un’altra parte, non ho visto, non ho sentito, non mi interessa. Il Signore è entrato nella mia vita? ma quando mai? Sta succedendo qualcosa a questi nostri figli? non ai miei. È la verità che ci fa liberi? io sto bene solo se nel mio buco, e, per quanto mi riguarda, l’incoerenza è una virtù che mi preserva dall’impegno della vostra salvezza.

A quale Vangelo si possono svegliare persone che si chiamano fuori? Non è una domanda che uno mette lì tra una giravolta e l’altra nel letto, quando il sonno visita tutt’altri benedetti. O meglio, anche lì, ma non solo. Se la pone in certe riunioni, traguardando quelli che stanno benignamente sopportando, dove l’opposizione prende lo sbocco di un dire senza sapere, di un’ostinazione senza porte. Come se il Vangelo non domandasse per sua natura altro rispetto ai propri schemi d’ordinanza, reputandosi avventatamente già a posto, e non si capisce che cosa gli si possa chiedere di più.

In comunità, e su questo giornale, non abbiamo come metodo quello di far rimbombare le cose brutte della vita: personalmente ritengo che c’è una imitatività del male a cui è bene sottrarre i più deboli, negando un’enfasi eccessiva alle tragedie della vita. Sono per i telegiornali sobri sul clamore dei coltelli che infieriscono oggigiorno; e per quei giornali, che la notizia di un suicidio relegano in corpo minuto ai piedi di una colonna: così facendo, non si sottrae nulla alla conoscenza, e tutto alla morbosità.

Sono per una televisione che serva, alla cultura e al divertimento: e infatti da molto tempo non la frequento quasi più. Mi ha perciò incuriosito la notizia che il cantante mio coetaneo si è spantalonato per denunciare che le quantità di gradimento stanno nell’ordine della grossolanità e non della qualità. Ma credete che questo basti per far cambiare le mariefilippi, i costanzo, e loro epigoni, con le loro storie di occulta violenza ai sentimenti e agli istinti, con le loro chiamate ai successi effimeri e alle carriere facili?; o a far rivestire – d’inverno almeno – le varie tipologie di letterine, così contribuendo a risparmi energetici, se non al buon gusto?

Credete forse che lo zibaldone delle lamentazioni su questi vicini che sembravano così compìti, o sulle famiglie che si disgregano nel sangue – su questi adolescenti sconosciuti, su questi coniugi che improvvisamente impazziscono, su queste madri lasciate sole a inoltrarsi in un laghetto ad affogare i propri figli – mettano davvero in discussione i nostri stili di vita? Le nostre attenzioni a chi fa fatica? O provochino una rilettura della degradazione alla volgarità, che si tratti di sesso o di denaro?

E la nostra fame di sapere davvero? E la nostra sete di trovarci a compilare un comune decalogo con cui affrontare insieme il difficile compito di educare? Chi si chiama fuori, resta tuttavia responsabile di ciò che avviene agli altri. Questo lo sanno i cristiani, o dovrebbero saperlo. Ma gli altri, che cristiani non si dicono più, possiamo lasciarli indisturbati nei valori che denominano universali, e di fatto sono i più di corto respiro? Ci possiamo permettere di lasciar loro la fittizia libertà di risolvere la propria vita, e la nostra, senza scontrarsi con il corpo del Cristo che si è offerto?

Con che corpo cammineranno accanto a noi?