Questo maggio autunnale cresce imperterrito verso l’estate. Immagino chi ama le pioggerelle ricorrenti: finalmente le ha, prolungate in un mese che si definiva – una volta – per le rose. (Oggi, anche a Natale trovi rose: e dunque non sono più le rose che abbiamo vissuto. Oltre tutto, senza più – di dicembre o di maggio – il profumo carnoso che precedeva e annunciava il roseto appoggiato al muro di cinta di quell’orto: l’orto che non c’è più,

come il verde della via Gluck). Chi ama il freddo umido, dal livore novembrino, ha riaperto i guardaroba dopo le promesse d’aprile; e quando le mattine uggiose si aprono a un caldo irresistibile – il sole è quello di primavera, ma più greve per via che si cala improvviso a infiammare la carrozzeria delle auto e dei corpi – gli pare che si venga meno a una promessa. Chi si è detto dispiaciuto per la perdita delle stagioni? Le stagioni non seguono il ritmo di sempre, e dunque non sono più credibili? o sono credibili per il fatto stesso di esserci, indipendentemente da dove si collocano? Non al posto che noi pretendiamo da una consuetudine che diventa sterilità, esse tuttavia ci sono sempre: il nostro compito è viverle, ciascuna come ci è data.

Semmai è da aggiornare la relazione con quanto avviene attorno a noi: perché ciascuno ha diverse prospettive, secondo dove sta, e con chi. Questa stagione della Chiesa, ad esempio: si sta tenendo un Concistoro, cardinali di ogni razza e di ogni lingua si fanno interrogare dal Papa sui nodi che questo millennio nuovo pone alle comunità cristiane: la distanza tra insegnamento e pratica, il servizio o il potere nell’autorità nella Chiesa, l’ecumenismo vero della fede e della carità, la povertà che la globalizzazione sembra accentuare, con i pericoli per una terra che si consegnerà molto sporca alle generazioni del futuro. Non si tratta di essere pessimisti o ottimisti. Ma è certo che tardivamente arriva nei palazzi quanto si ascolta dai fornai: lo sbigottimento di quella regina della brioche – il giorno che le han tagliato la testa – è venuto da una disinformazione sul rumore che pure la rivoluzione aveva certamente fatto salire alle sue finestre; allo stesso modo del grido su Sagunto che brucia, mentre altrove si perdono a discutere sulla natura dell’acqua con cui spegnere l’incendio. La Chiesa – quella dell’organizzazione, non certo quella che lo Spirito accompagnerà fino alla fine dei secoli – non sarà attaccata da una rivoluzione o dal fuoco. Come ho già scritto da un’altra parte, sarà svuotata dall’indifferenza e dalla noia: se al vertice non ci si lascerà insegnare dalle periferie, se i princìpi negheranno la coscienza degli uomini, se ci si avvolgerà compiaciuti nei filatteri dei riconoscimenti terreni. C’è una distanza tra chi predica il Vangelo ai pagani di oggi e di qui, e chi ritiene di guidare i predicatori dal rinchiuso delle cattedre accademiche: se è una distanza colpevole lo giudicherà Dio il Signore. È però venuto il tempo di dire che noi stiamo all’opposizione di alcuni strumenti del mondo, e di alcune filosofie: quanto più sono suadenti, tanto meno raggiungono il cuore del cristianesimo. Allo sguardo della fede non bastano le folle: serve il povero in cui vedo il Cristo. E questo non lo sa dire né la new-age – che non contiene il Crocifisso – né le tele-religioni che non producono l’intimità con il Risorto: essa si manifesta dove due o più fratelli sono uniti nel suo nome, foss’anche nelle catacombe. Dove non c’erano cardinali, e tuttavia già c’era la Chiesa.