È un’estate non ancora definita, questa. Oggi è giornata che si apre grigia: ma se fa come nei giorni passati, il mezzogiorno si aprirà nel sole, e il tardo pomeriggio sarà investito da raffiche di vento ululanti. Sono folate strane, non mi pare appartengano al nostro clima: uno squasso ribaldo che drizza rami cascanti, cui seguono intervalli inaspettatamente muti. E improvviso uno scroscio che sa di nubifragio, con l’acqua che si muove nella strada come una cortina

ondeggiante spinta da mani invisibili. Verso sera si rimetterà una coperta sopra il letto: sarà tempestato da qualche parte, si dice, come se non bastasse quello che è successo qui.

Ma c’è sempre un’altra parte cui accollare l’inspiegabile di qui. I più ottusi – loro dicono di sé di essere acuti – vanno in giro a raccontare che in questo modo sono nate le religioni, e si è inventato Dio; e, insistono, così ci mangian su vescovi e preti (è strano come nell’era dei mac-donald’s ci sia ancora qualcuno che nella figura del mangiare trovi il massimo della goduria!). Che in loro ci sia confusione lo si nota dalla corrispondenza degli argomenti che usano. Un buon esercizio delle vacanze – in spiaggia più che nelle arrampicate di montagna, dove l’andar su affina i ragionamenti – è anche ascoltare gli amici di sempre, quelli che non avresti mai sospettato che diminuissero così con il passar del tempo, intenti a denigrare quanto non sanno accogliere più. E con argomenti tratti dalla cronaca, ma senza l’intelligenza compassionevole che la storia, dell’uomo e della Chiesa, sa usare.

Questo non toglie – una volta di più me lo ripeto, perché davvero qui si gioca la finezza di una vita di fede – che non ci si debba lasciare avvertire: se un disagio c’è, un benché piccolo motivo scatenante c’è. Nella loro revisione di vita, i vescovi e i preti non possono più eludere i nodi che alimentano le ostilità e non interrogano più le indifferenze degli uomini. Gli apparati elefantiaci, l’esasperato centralismo, il sospetto delle carriere, e l’indubbia paura verso diversità culturali ramificano la sede vaticana in Africa, nelle due contrastanti Americhe, in Asia e in Oceania – oltre che nell’antica Europa, con gente così nuova da essere irriconoscibile per il fatto cristiano – come fossero delle dépendances. Antiochia, Gerusalemme e Corinto non si erano appiattite su Roma. E il servizio di Pietro – quello che oggi papa Giovanni Paolo chiede che gli sia insegnato da tutta la Chiesa – era presidenza di unità nel ricoscimento delle differenze. Una Chiesa è bella, se prende il largo da se stessa, sentendosi sempre più relativa al Regno. Una Chiesa è bella se deposte le vesti di vanità, accetta di tuffarsi verso il suo Signore.

Ma questo è l’oltre: che indubbiamente c’è, ma che non esime ciascuna porzione di Chiesa dalle proprie responsabilità e dai propri nodi da sciogliere: Eucarestie da non snervare in coreografie vuote di sobrietà, Eucarestie da rivitalizzare nella missione al mondo. È qui che si avverano le cose belle dello Spirito: nel tumulto di pioggia e di vento, e nel silenzio d’attesa che impregna le pause.

Per questo ci battiamo contro le bugie, tutte: quelle degli altri, ma soprattutto quelle che raccontiamo a noi stessi.