La sofferenza dei sani, in questo giugno così afoso, può ben raccontare la fatica dei malati. Forse non è una stagione del tutto sconosciuta: nel passato chi sa quanto caldo è planato sulle strade, e si è intrufolato nelle stanze più riparate, a depositare la sua corteccia umida sui corpi. E certamente trovate chi vi snocciola estati ancor più calde: non lo fanno per consolarvi, ma per avere qualcosa da dire comunque. Sono quelli a cui interessi solo per l’ascolto che gli presti, e non tanto

per quello che essi dicono. Improvvisano, appena gli si dà l’occasione: tentano di uscire dall’apnea dello spirito, che ha gli stessi connotati di quella patita in queste sere senza aliti di foglie. Una categoria di persone che aumenterà sempre di più, che chiederà una grande pazienza, e una intelligenza che non si oppone con ragionamenti a discorsi di pura sonorità: sentendo la propria voce, si dichiarano ancora vivi. Una gran misericordia occorrerà.

Per questa centesima lettera, mi sono chiesto se, magari inavvedutamente, non ci sono cascato anch’io: non dico sempre, ma qualche volta, in certi momenti di apnea parrocale. E per non pietire i complimenti di routine, mi sono subito risposto da solo che no: e non per arroganza, ma perché questo è stato, lungo dieci anni, il mio luogo di intimità con ciascun lettore. Non tutte le risposte possono essere state azzeccate: ma tutte sono state precedute dalle domande raggranellate nello scorrere dei mesi: dalle parole, dagli avvenimenti, dalle presenze e dalle distanze. La potenza di una storia non è mai solo del singolo.

Quand’ero un ragazzo, avevo anch’io come tutti un posto mio: era nel roseto dell’angolo nord del muro di cinta di un grande orto di famiglia. In giugno era costante la fioritura di rose rosso sangue, vellutate e carnose, il cui profumo sto invano inseguendo da decenni. Con l’alta siepe che lo delimitava a sud, era un vero e proprio eremo in cui non ricordo di averci fatto entrare qualche amico, anche perché era proibito: una proibizione che mi stava bene, perché lasciava integro il possesso e salva l’amicizia. Anche da grandi, c’è talvolta la tentazione di nascondersi dietro qualcun altro: io vorrei, ma sai il nonno. Roseto e orto e nonno adesso non ci stanno più. Purtroppo.

Da grandi, ci si deve permettere di lasciar entrare qualcuno nello spazio della propria intimità. Ed è quello che ho fatto in questo angolo del Santalucia: non per fare componimenti comandati, né tantomeno per sentirmi vivo: ma per vivere. Con i condizionamenti che porta l’inevitabile varietà delle stagioni, e degli umori, dei profumi o delle gelate (le sculture della neve avvinghiata con tenuità alle grosse spine dei rami rampicanti, possono a mo’ di miraggio rinfrescarci in questa calura?): lettere diversamente calibrate, difformi nel proporre, ma tese al fare corpo che è stato filo conduttore di questi appuntamenti.

E già che siamo nei numeri, la centesima lettera coincide con il ricominciamento nel cinquantunesimo del Tempio: dove l’abbondanza è descritta dallo zero, e la promessa dall’uno. Perché ai credenti nel Risorto è detto che non c’è una fine senza un nuovo inizio: è l’eternità che detta le sue leggi al presente. Per il nutrimento della nostra speranza.