È stata la qualità di questa estate che ha fatto chiedere ad alcuni della Comunità di raccontarla. Proprio questa estate, che non è stata la stagione che ci si aspettava, sole, bagni e tanto caldo? Proprio questa. Perché la si definisse oltre i cliché con i quali solitamente l’avviciniamo. Perché la si potesse descrivere per quella pienezza che non è fatta dalle attese ma dal vissuto che di fatto compone la vita.
Il colore pennellato su Città alta
dall’imminenza di un temporale – una città da brivido stagliata su un cielo nero, esaltata nel suo profilo dalla nitidezza di una luce argentea – e le piogge torrenziali che seguivano, la grandine e gli spruzzi di neve sui monti, il freddo che chiamava il cambio del vestire, il cielo terso come appena d’aprile s’affaccia, con il vento a spazzare la coltre dei gas e a far correre le nubi come solo succede di vedere nei climi continentali: una stagione che si è negata nella sua specificità di immobilità, per una somma di stagioni.
Nel ritmo del tempo, e per la nostra cultura, l’estate è la stagione dei sogni che s’avverano, dei desideri che conquistano, della vita senza gravezze. È l’anteprima del paradiso, se sta come il giardino senza sofferenza. È il sole, con il magma del fuoco che ribolle ed esplode, che si riconfigura continuamente, e che lo rende irripetibile non per i nostri occhi ma per se stesso; è il cielo nitido di un azzurro cristallino che solamente le variazioni climatiche generano. Se un sospetto c’è sulla bontà del paradiso, è “il sempre così?”. Nessuno si pensa in un paradiso monotono, in una immobilità velata da foschie, seppur di sole.
Questa estate, dunque, per dire come si può vivere la pienezza solo per la diversità, restando qui, o andando, ma altrove dai luoghi predefiniti da una pigrizia o da gaiezze comandate. Per raccontare che il riposo non si definisce dal mangiare e stravaccarsi, o da una abbronzatura integrale, o dal girare in tondo in notti da discoteche, vicino al mare senza vederlo. Per descrivere la sosta estiva come un fare altro: viaggiare, contemplare, immergersi, accorgersi. Raccontare l’estate è rivelare l’avventura della vita: che è il silenzio di un monastero o la collina dell’incontro, la sfida di un aereo dopo l’11 settembre, le città che hanno storia, la campagna piena di animali e di bimbi, il prendersi cura di chi ti si mette davanti, l’incontro con uomini di altro e rispettabile modo di vivere sulla terra.
Non è successo a tutti noi nella stessa forma. E non sono possibili tutti i racconti. Ma ci occorre esemplificare la composizione di diverse esperienze per annunciare l’armonia dell’Estate eterna, verso cui tende il nostro vissuto cristiano. Senza questa prospettiva, il fare cui siamo chiamati in questo rientro perderebbe il suo perché. E le energie che impieghiamo nelle opere di comunità potrebbero spegnersi in un impegno senza cuore, in un vangelo senza il Risorto. All’inizio di un anno nuovo è bene ricordare verso che cosa si va, a partire da ciò da cui si viene: così, la cura delle nostre ragioni di fede, e la cura di chi vuole lasciarsi toccare dai sacramenti che salvano, prepara alla cura di chi è povero, di intenti o di beni: che sarà il motivo dominante, la trama sottesa delle nostre pratiche comunitarie.
Ma, con il sole nella testa e il viaggio come meta.