Alto sulla strada, senza coinvolgimento in un cuore pedonale, senza i riflessi colorati della vita che si svolge nel quotidiano – un caffé, la panetteria, le stanzialità di pensionati in cerca di senso (i bambini no, non ci sono più su nessun sagrato, non passano soli su nessuna strada più, ancora li puoi vedere relegati in quei miniparchi recintati che son finzioni e non spazi) – così discosto da non richiamare, così rinchiuso da allontanare: così mi è apparso

 sempre il tempio, passandoci davanti diretto a quel paesone vivace in cui vivevo, con una piazza a crocevia, e il fischio del treno a ricordare l’altrove fin da prima dell’alba. L’averlo detto la sera del primo incontro – sotto una smodata luce biancastra, attorniato da chi lasciavo e da chi incontravo per la prima volta, il cuore di là e di qua in una lacerazione da nascondere sotto parole ridondanti – l’averlo detto, ha fatto nascere una leggenda, di quelle che ciascuno, se ha un minimo di originalità, può aspettarsi gli costruiscano attorno, sbriciolate nei contorni da chi le tramanda, fino talvolta ad intaccarne il nocciolo.

Questo prima che ne divenissi il parroco.

Certo, è diverso dalle chiese che lo circondano, nate tutte in mezzo a un borgo. Pensato come un santuario a cui si accede non per un passaggio, ma per una intenzione, il tempio ha mantenuto una certa distanza dal quartiere e i suoi abitanti. Visto dall’alto delle mura, ha un suo posto di fulcro, immerso tra le case e tuttavia distinto dal verderame imponente della sua cupola. Ma abitato dentro la sua architettura perfetta, nel gioco di riflessi soffusi che il giorno crea su colonne e pareti, si entra in un altro mondo: sacro, come può essere un grembo creato dalle mani dell’uomo, uno spazio coperto, intimo e rassicurante, a cui, con la lanterna finalmente aperta, si è aggiunta la verticalità della luce che discende per chiamare all’alto. Un amalgama di romanico e gotico secondo linee moderne, quasi a definirne la vocazione di introspezione ed elevazione: un tempio di comunione per chi scandisce nell’andare quotidiano le sue liturgie di fede e di speranza; e un tempio di pace, nel quale la Città nello scorrere del tempo riconosce il segno di una grazia ottenuta, e un luogo peculiare da cui far salire di nuovo la supplica.

Questo

Questo potrebbe essere il duplice destino di quest’opera di cui contiamo gli anni in questi giorni. Un destino già realizzato per chi lo ha abitato, preti e laici illuminati, singoli e gruppi: in certi pomeriggi deserti si può sentire il brusio di chi è passato sull’altra sponda; e in certe celebrazioni domenicali, l’onda di spinta di chi non entra più o non è entrato mai, consegnato al Signore dalla fede di chi celebra il mistero della salvezza. Se entri quando vibra nelle celebrazioni della gioia o del dolore dell’uomo; o per incontrare una Presenza nella tua solitudine di preghiera, non ti senti più estraneo a queste pietre e a questa luce. I morti e i Santi ci aspettano ovunque: ma qui diventano i nostri, nella lode a Dio da cui proviene ogni bene, e a cui ogni creatura ritorna.

Questo, dopo che ne son divenuto parte, per me.

Ma sono convinto che queste emozioni conquisteranno chiunque sarà chiamato, nella Conca d’oro, a servire il Signore, partendo non del tutto dal Suo tempio: come è scritto sul frontone bronzeo, ammonimento a tenersi dentro, per il mondo, atmosfere e sacramenti.