Se quell’olivo che nasceva dal tronco delle pareti si fosse diffuso nel cuore della sua gente come riempiva, lieve e fresco, tutta la cupola! E se fosse rimasto lì, nei secoli, a ricordare ad ogni uomo delle successive generazioni, che cosa si perde con la guerra! Nella vigilia della consacrazione del Tempio, don Vittorio Aquilina ha visto la stessa volta brillante, in giornate di nitido sole d’aprile come queste: abbassati i ponteggi, si contempla finalmente e l’idea e la realizzazione.
Ambedue scomparse sotto i fumi del tempo, e tuttavia restate in attesa di un ripristino. Il parroco di allora – che ha portato tutto il peso di una costruzione onerosa all’indomani di una guerra che aveva svuotato uomini e cose, case e madie – dovette dirsi che ne era valsa la pena.
Un tempio della pace è luminoso: non ha paragoni con i templi, severi e nerognoli, costruiti sulla memoria dei caduti. È una fabbrica che ricorda il dono della resurrezione: il bianco rosato del mattino di Pasqua che tinge di toni ariosi, solenni e lieti, i volumi che racchiudono e insieme lanciano verso l’oltre. La pace non è ciò che si insegue con la guerra, ma ciò che è dato: i colori del cielo, e dei fiori, e di queste piante che cercano buffi di vento per annunciarsi vive; e l’entusiasta concorrere degli uomini a trovare il Signore della vita nella novità delle loro mani e delle loro menti: che alla pietra cavata dona la forma dell’indicibile, e al metallo forgiato l’impronta dell’eterno. La pace è là dove non si temono la novità, e il rischio sapiente che rovescia abitudini viscerali. La pace è il frutto dello Spirito del Risorto, lasciato nel mondo fino alla sua consumazione.
Abbiamo vissuto a sufficienza per capire che un Tempio di pace non basta, se non si riempie dell’incenso di un popolo che prega, ed esce da quel Tempio portando con sé il Principe della pace. Viviamo con passione il nostro tempo; ne vediamo, in molti uomini e donne, i segni di una responsabilità che si occupa degli addendi della pace: l’indispensabilità di un’accoglienza dei deboli, la forte condivisione della giustizia, una rinnovata lettura degli orizzonti di verità. E tuttavia non ci nascondiamo le pieghe dentro cui prolifica il seme della violenza: ancora, in questa Pasqua, l’uomo è Caino per il suo fratello; e ancora non ci si definisce come figli dello stesso Padre, eredi alla pari dei frutti della terra.
Su una terra brulla nasce l’olivo: pronto a dar rami per la festa, a dar frutto per la tavola, e pronto ad adombrare come in un nuovo Getsemani chi è nella vigilia di una prova grave. Sotto la cupola rinnovata degli olivi trovi posto l’invocazione di tutte le genti del mondo: e la attraversi la memoria di chi questo Tempio ha voluto e di chi l’ha costruito, per essere segno della presenza del Signore, che non lascia senza risposta chi lo chiama. E nella sua penombra di luce, trovi la tenerezza di Maria, madre del Risorto, e madre di questo Tempio che porta in sé la memoria di un prodigio a Lei chiesto. E trovi ciascuno la gioia intensa che fu dei discepoli in quei giorni del sepolcro vuoto, ma giorni degli occhi del corpo e del cuore pieni di Lui.