Sono le tre e mezzo di notte. Chiamato per un malato grave – è raro ormai, soprattutto di notte, quasi tutti muoiono negli ospedali – sto per le vie del quartiere. Di fretta nell’andare; più lentamente nel ritornare, e con un giro più largo: il sonno se n’è andato, e il ministero compiuto tra i familiari partecipi del morente ha bisogno di una decantazione. Sgrano il rosario, e rivedo, improvvisamente, le mille mani di islamici che, tra fumi e polvere

delle immagini televisive di questi giorni, si sono affacciate con il loro ancorarsi al segno dei nomi di Dio. C’è un nitore della notte che scova i pensieri inutilmente cercati nel giorno: necessità che premono e non si ricordano, carte che non si trovano, parole che non scendono sulle labbra. Sensazioni perse in un altrove, e che solo il caso o circostanze apparentemente differenti fanno riaffiorare.

C’è il sapore della notte fatto di silenzio immobile: non avevo mai notato che le mie scarpe hanno lo scricchiolio ritmato del piede che si alza e si appoggia, quel suono pensavo appartenesse solo alle scarpe dei miei nonni. Debbo credere che pure in casa sono afflitto da rumori che non percepisco: non uso mai sottofondi musicali, e non so l’uso della radio; dunque, se non l’ho notato, è perché di dentro rimbombano le troppe cose che preoccupano una giornata da prete? O semplicemente è l’impatto tra loro dei vari materiali che rimanda echi difformi, così come racconti diversi nascono da storie solo apparentemente simili?

È un bel quartiere, il nostro. I palazzi hanno tra loro la misura giusta anche nel riverbero fioco dell’illuminazione artificiale. Sono pensati per contenere vite così distanti nella loro unicità: per età, e per le attese e le speranze, per le delusioni e le batoste. Con lo sgranarsi delle avemarie, e con il succedersi dei passi che si è fatto lentissimo, recito il nome di tanti che abitano dietro questi muri. Storie conosciute, o solo intraviste. Amarezze consolate, o durezze resesi inavvicinabili. Passioni più lunghe del venerdì santo, e silenzi più tombali del sabato senza vita di Gesù. Ma anche le amicizie spartite, e le grazie implorate; e la fiducia nella provvidenza di Dio e l’ottimismo sul futuro di questo mondo un po’ matto, diventate fecondità senza calcolo, e tuttavia responsabili, di molti giovani sposi.

Qualche finestra segna le facciate con una luce smorzata. Una notte difficile? Una notte percossa da pensieri insopportabili? o è la fatica di un corpo malato? Madre consolatrice del Figlio appeso, madre consolata per il Figlio Risorto, ora pro nobis. Mi torna il latino, quando sospetto il dolore: sono meno parole mie, e più invocazione di quel corpo diffuso che è la Chiesa, corpo di cui Cristo è il capo, e che dunque attraversa muri e cuori. Come può qualcuno sentire nemica una Chiesa che gli annuncia la bellezza del mattino di Pasqua? Non ci son più i due nottambuli intravisti all’andata sulla piazzetta: mi era parso si stessero parlando senza suoni, come chi, per ascoltarsi, non ascolta.

Strade completamente nude, da ovest ad est, da sud a nord. Non tutto dei punti cardinali che segnano il quartiere, ma certo una parte significativa mi è entrata a linfa in questa notte di grazia: questo tempo fermato che attende una immancabile aurora, io lo sto misurando con un passo lieto, ormai sotto la mole del Tempio. Neppure un alito di brezza a toccare l’architettura degli alberi che si rovesciano dalle recinzioni: disegnati dal luccichio di foglioline lattanti che si muovono senza vento, comprendono in sé la figura di questo mondo che ci precede, e che continua a fiorire. Che nessuno abbia una primavera disturbata. È l’ultima preghiera, prima di infilarmi al dieci.