Stavamo sulle spiagge di Biarritz, spiagge dell’Atlantico, spanna più spanna meno lo stesso parallelo di Boston e di New York. Lì, nel nostro contemplare attorno a Lourdes, ad aspettare onde gigantesche o la bassa marea, che poi non avremmo visto; lì, immersi nel vento di grandissima pace che l’oceano sa portare, ci ha raggiunto la notizia delle torri crollate. Direttamente rimbalzata nei cellulari dai figli che stavano di là. Eravamo di fronte, e la distanza non c’era, un cielo d’azzurro profondo ci precipitava in quel punto di macerie. Quel giorno lo stacco fisico non è stato sostituito per noi dalle immagini televisive, falsamente vere: noi eravamo pienamente dentro la tragedia, anche per un viaggio che aveva fino a quel momento liberato la disponibilità del cuore a cogliere i segni di un bene diffuso. Quanto più grande avevamo sperimentato la bellezza, tanto più grande è apparso l’orrore. Ma quale orrore? Tra i mille distinguo e però di questi giorni seguiti all’impatto, tra le tante incertezze su quanto si sta preparando (di giustizia, si dice, non di vendetta), tra le mille paure cui non diamo voce per non impaurirci di più, vi sono alcune cose delle quali non ci siamo voluti accorgere nei molti anni che ci stanno alle spalle.

Innanzi tutto che quel terrorismo contro vittime civili non è cominciato con l’11 di settembre di questo primo anno del secolo. Civili sono anche i cinquecentomila morti provocati dall’embargo seguito alla guerra dell’Irak: non colpiti direttamente da aerei o ordigni, ma morti – e molti bambini tra loro – per malnutrizione o per mancanza di medicine. Annotava un cronista, in questi giorni, che cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato in tutto il mondo. Non per mettere in piazza ciascuno i propri morti. Ma bisogna imparare a guardare al mondo non solo dalle fessure delle nostre ferite, ma anche da quelle degli altri.

In secondo luogo c’è un Islam politico e fondamentalista, che evidentemente nessuno può confondere con la religione mussulmana. Ma è oggi deviante proclamare che nel Corano la jihad non è violenza: la jihad di fatto è oggi il nome di una rete di fanatici, che fa della bugia con gli infedeli un metodo; e del disprezzo per ciò che è diverso da sé una causa per cui uccidere e uccidersi. È urgente aiutare gli stessi mussulmani a separarsi nettamente dai violenti, che li abitano in nome di ottusità interpretative di alcune scuole coraniche. Si è scritto che l’Islam si presta bene ad essere la nuova ideologia dei dannati della terra, di quelle masse che vengono ad abitare, sgomente e discriminate, l’Occidente: questo occorre che lo ricordiamo, per non farneticare di facili integrazioni.

È venuto il momento di non innescare una nuova coagulazione di risentimenti. Di rispondere con saggezza alla ferocia. Di avere la forza superiore di chi porge l’altra guancia, ricambiando la violenza con cibo e medicine, e dando la benevolenza del Vangelo. Ci è dato un momento forse irripetibile per fare la pace: dirimpetto all’America, non per svuotare un dolore, ma per dargli un senso infinito, svuotando l’odio.