Un mese dei morti che allunga l’elenco, questo novembre. Nomi nuovi che finiranno su una stele, a ricordare l’eccidio di Nasiryia. Ma nomi tolti a labbra d’amore e di vita. Uomini che lavorano per la pacificazione, nel mentre si guadagnano da vivere. Chiamati a ricomporre i cocci di una stupidità che non ha la pazienza della tessitura, ma la virulenza del fuoco. Giorni che cambiano i vivi, questi? Forse. Forse per qualcuno. Ma per i tanti, facendosi scudo

del titolo di eroi con cui li seppelliscono, non avverrà il consueto accantonamento? Quel voltar pagina, perché la vita continua, e non ci si può intristire a lungo? O quel ritirarsi rabbiosamente dentro i propri recinti, dimenticando che il dolore non ha spessori diversi quando tocca la pelle di un uomo: sia europeo e americano, o sia iracheno? O quando l’eccidio tocca in Istanbul gente in preghiera?

Poco meno di un mese fa, Yonef è venuto in presbiterio per salutare. È in partenza. Yonef, che non parla e non sorride, ti guarda con occhi che contengono la grande diffidenza per la vita. Non parla Yonef: per lui parla la mamma, una giovane, bella donna irachena. Loro abitano in un luogo infestato dalla guerra: la stessa guerra che li ha condotti qui da noi. Perché Yonef è quel bambino di cui avete certamente avuto notizia qualche mese fa: portato in Italia per essere curato dalle bruciature che hanno investito la sua faccia e parte del suo corpo, è stato salvato nel nostro ospedale dalle devastazioni che ha subito in uno dei tanti bombardamenti della sua città. Non parla e non sorride, Yonef. Per lui sorride la sua mamma, che ringrazia con quieta dignità per l’ospitalità che ha ricevuto nelle nostre case, lei e il suo piccolo uomo, nelle settimane dopo la dimissione dall’ospedale. Abita a Baghdad, e più precisamente in una casa vicino alla Croce Rossa. Quella Croce rossa che tre giorni fa è stata devastata da una bomba?, le chiedo. Quella. Tornare là le mette paura: ed evidentemente è voce anche del figlio. Ma è determinata ad andare. Deve, dice con un sorriso che contiene tutto il rimpianto per la buona vita che ha potuto trascorrere nelle nostre accoglienze: senza i lampi e i tuoni delle esplosioni, senza doversi aspettare il crepitare diaccio di una mitragliatrice; e senza il panico che il giorno annacqua un po’, ma che di notte non lascia dormire. Yonef adesso sta bene, dice. La faccia di Yonef è una continua cicatrice, attorno ad occhi gonfi e alla bocca storpiata. Non si riesce a fermare lo sguardo su di lui: il deturpamento rimanda una struggente consapevolezza del male che la stupidità delle guerre procura.

Questa è la storia di Yonef, che ormai sta continuando nella difficile casa di Baghdad. Ed è la storia di Nasik, la sua mamma: che forse ancora s’interroga sulla gentilezza trovata qui, su quale pietas sostiene le attenzioni senza condizioni da cui è stata avvolta in terra straniera. E lo sgomento di quanto successo ai nostri connazionali a Nassiryia, qualche chilometro più in giù e sullo stesso fiume, è sicuramente il suo sgomento. Ha questa possibilità, il bicchier d’acqua dato in nome di Gesù: di rendere concreta la verità che nessuno è nemico a nessuno, e neppure straniero. Là, sicuramente, Nasik piange sui nostri morti. Che non considera eroi, lei, ma figli strappati. Le abbiamo sussurrato il nome di Gesù, quando era tra noi. Ma per raccontare noi, non per convertire lei. Ora, nel modo che non conosciamo, riesca a suggerirlo a Yonef, perché, fatto adulto, diventi testimone dell’amore ricevuto.