Ero nello studio del vescovo Giulio, quando è arrivata da Roma la telefonata della tua nomina alla sede di Bergamo. Ricordo la sorpresa del tuo predecessore che, in massima riservatezza, mi partecipava la notizia che ufficialmente sarebbe stata data nei giorni successivi. Una sorpresa per le incognite di un ministero affidato a uno di noi: pur nella stima che aveva per Te, avrebbe desiderato, per l’affetto che ti portava, che non ti fosse dato il peso dei profeti di casa.

Mi sono ritrovato sull’onda di quella conversazione che si era prolungata

oltre le due ore – nella confidenza che Egli sapeva stabilire con chi riusciva a toccarlo nella sua umanità – quando il sabato seguente, di buon mattino, mi hai telefonato da Savona. Avevo chiesto a monsignor Oggioni se non era il caso di rimandare la mia nomina a S. Lucia: mi rispose che la mia voleva fosse la sua ultima nomina da vescovo di Bergamo. Ma, nella sua delicatezza, incaricò l’ausiliare Paravisi, che veniva da Te il venerdì, di avvertirti della cosa. Di quella telefonata ti sono ancora grato. Grato per gli auguri convinti che mi hai fatto. Ma di più per la preoccupazione che hai condiviso su quella che sentivi come una grave responsabilità. Mi sono permesso di rassicurarti, avvertendoti – a che serve sennò la compagnia dei preti? – che i vantaggi della tua venuta tra noi erano molti, e gli svantaggi pochi; ma certo Tu stessi attento a che gli svantaggi non prendessero una risalita che sarebbe stata algebrica rispetto ai vantaggi, che sarebbero montati di forza solo aritmetica. Pensavo ai vantaggi del conoscere già la storia cristiana della nostra terra, e i moltissimi preti – quasi la metà – che avevi accompagnato nel tuo lavoro in Seminario. Ma pensavo agli svantaggi che potevano nascere proprio da quella conoscenza, dalle fissità – per deformazione professionale – che non individuano il cambiamento radicale che avviene nel ministero in parrocchia: maturazioni non prevedibili per alcuna etichetta seminaristica. Pensavo che ti sarebbe stato difficile sentire la fatica di chi è chiamato a cambiare comunità, dato che la tua unica casa – la tua unica serra – era stata, dagli undici anni fino alla tua consacrazione a vescovo, il Seminario; e che forse, nonostante la tua virtù provata, ti sarebbe stato difficile ricominciare senza appoggiarti a quelli che con Te avevano spartito riunioni e corridoi per tanto tempo. E anche pensavo che, per uno storico della nostra diocesi come Tu sei, sarebbe stato troppo domandarti di baipassare con freschezza quel periodo d’oro che ti stava ancora consegnando una diocesi ricca di giovani energie, e di memorie fertili, ma già esposto al vento di una secolarizzazione sfrontata.

Pensavo così, perché così volevo pregare per Te.

Quello che è avvenuto in questi dieci anni ti ha fatto apprezzare molto, e criticare un poco. È nella natura dell’episcopato subire il martirio di un consenso non generale. Sai, ad esempio, quanto parecchi preti bergamaschi fossero infastiditi dal fatto che il tuo predecessore, il vescovo Giulio, chiedesse ai suoi preti in visita se pregavano, se coltivavano la fede. Eppure: c’è una domanda che possa meglio avvicinare a quei colloqui dello spirito, a quella intimità della vita, che è stata la caratteristica degli incontri dei santi?

Se ho voluto ricordare questa tappa del tuo episcopato, è anche perché la tua storia di prete si è strettamente intrecciata a quella della comunità che si è riunita in questi cinquant’anni nel Tempio. Giacché qui hai imparato – anche se in un servizio domenicale che non può avere tutti i tratti onerosi della quotidianità – che cosa vuol dire fare il prete in parrocchia. E l’ho voluto fare con ricordi personali, perché credo che la nostra presenza al mondo abbia bisogno non di celebrazioni, ma di vissuti. Così come di vissuto sa il tuo nome che ormai in lignea filigrana ancora si nota sul confessionale di destra che per tanti anni hai abitato, con disponibilità e grazia.