Questa non è una santa Lucia come le altre.

Lo si può dire se non si trova fieno o paglia da mettere nella scarpa per l’asinello che è stanco, che viene da lontano, che viene da chissà dove. Ma lo si può dire se la notte non accompagna l’attesa, e se l’orizzonte è solo quello delle bancarelle, o delle bustarelle che non possono aver recapito presso una statua che dorme. Non è lo stesso se occorre tradurre in visibilità l’impalpabilità di un desiderio

 che è bello quando insegna l’oltre di ogni cosa, il mistero che sorpassa la “borsa del papà”, l’invincibile tentazione di piegare a sé ogni cosa che stia sotto il cielo.

Questo non è un presepe come gli altri.

Lo si può dire per l’affezione che si ha a un modo: il muschio o la plastica, il cartongesso o la vetroresina, i laghetti con carta d’alluminio o con i pezzi di specchio rotto accantonati da mesi proprio per quell’uso, oppure la formale costruzione di una natività per simboli, metafore, allegorie. E allora scaturisce o no una preghiera: che tocca o gli argini del mondo vasto che il simbolo sa meglio rappresentare, o quel più intimo cortile dentro cui stanno piantati a darti sicurezza i figli, gli amici, panettieri e boscaioli del tuo quotidiano.

Questo non è un Natale come tutti gli altri.

Lo si può dire con l’ovvietà di un tempo che inevitabilmente non si ripete allo stesso modo. O lo si dice quando mutate circostanze di vita, o lacerate relazioni affettive, alterano connotati che appartengono alle amabili abitudini della memoria. E allora basta che non ci sia più il tuo papà – dico per fare un esempio – e ciò che accade non è più lo stesso: dimezzati da un’assenza, che puoi nascondere persino ai tuoi intimi, ma che di fatto cambia tutta l’ottica. Nel caso, è un vuoto che determina tutti i pieni che restano. Ineluttabilmente.

Ma l’incarnazione del Figlio di Dio resta intatta.

E vale per chi è perduto, o si sente perduto. Per chi vuol cambiare, e per chi è deluso. Per chi è rassegnato a una terra che sembra darsi regole sempre più lontane dal vero sogno dell’uomo. Le regole delle genti ricche contro quelle povere, dei lavandai della terra ricacciati sempre più sulle rive di fiumi ridotti a cloache, mentre quelli che vestono tessuti morbidi stanno in palazzi riscaldati.

Vale la profezia di Isaia: «Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra».

Resta intatta l’incarnazione del figlio di Dio: che assume tutta la carnalità che conosciamo, perché tutto è buono in Lui che è buono, e tutta la trascendenza che i segni d’intelligenza e d’intuito dell’uomo sanno disegnare. Egli assume la storia di ciascuno: perché ne sia illuminata; e ne sia riscaldata là dove, in questo natale più degli altri, trova fuochi spenti.