Serpeggia la stanchezza dentro la Chiesa. Qualcuno la trova nello stress per il troppo che circonda le attività parrocchiali: troppi appuntamenti, troppe pratiche, troppe riunioni. C’è da ringraziare per comunità cristiane che finalmente hanno preso strade d’impegno più vere rispetto al passato. Ma a quale prezzo? C’è una marmellata di buonismo che corrompe il Vangelo di Gesù; e una indistinzione che inevitabilmente

fa assumere alla Chiesa le logiche del potere del mondo. Gesù è venuto nella piccolezza di Betlemme a mettersi nelle mani di uomini: ma, appena grandicello, ha insegnato ai suoi genitori e a noi che la mitezza si stende solo a partire innanzi tutto dall’appartenenza al Padre e alla sua volontà. Più che nei panni “del freddo e del gelo” – sensi d’emozione elementare – ha mostrato la salvezza attraverso le bende della sua sepoltura – segni di un amore sino alla fine.

E la continuità della sua presenza nel nostro oggi non può prescindere dai sette santi segni che ha lasciato in depositum fidei, da far fruttare. Per i cristiani d’oggi, c’è un innegabile legame tra la fuga dalle responsabilità della storia e la contemporanea fuga dai sacramenti. Staccati dalla sua umanità – consegnata a noi nell’Acqua e nell’Olio, nel Pane e nel Vino, e nel Vento dello Spirito che invade cuore e mente dei suoi fedeli attraverso mani di consacrazione – è facile ripiegare in aria, acqua, pane, olio e vino che restano solo frutti della terra: l’obbligo di Caino, dunque, e non la religiosa restituzione di Abele; lenimento solo del corpo e non viatico dell’anima; ricerca di una tavola per sé, e briciole per chi, venendo da fuori, come il Bambino non trova casa.

La sera di quel sabato – nella cornice di un Tempio carico di presenze, e nel calore di un Vescovo anche fisicamente appassionato nella predicazione di Gesù Cristo – l’irriducibilità della logica cristiana alle sottili concupiscenze del mondo mi è sembrata così forte, da farmi chiedere se il paradosso dell’Incarnazione sta ancora all’inizio di ogni nostra personale o ecclesiale convocazione. Il Figlio di Dio che viene nella nostra carne vi impianta gesti belli, determinazioni che raddrizzano il corpo, sentimenti che non diluiscono nell’immediato. È la venuta del Figlio nella carne che fa di ogni uomo una novità nonostante il peccato, e nutriti i discepoli, e risollevato ogni malato; che fa sacro un matrimonio, e alcuni uomini capaci d’essere un altro Cristo. Solo il Figlio di Dio che si stende nel corpo di un adolescente lo fa teneramente forte. Avrei voluto raccogliere, in mani a coppa, le lacrime che ho visto scorrere sulle guance dei cresimati, quel sabato sera che apriva sulla festa di Cristo Re. Rotolavano a goccioloni compatti e lenti, su facce intense, a mischiarsi con le mani del Vescovo unte del Crisma: certamente una memoria per sempre nella loro vita. E, attraverso la mia, nella vostra, genitori che ancora cercate la domanda giusta da insegnare a vostro figlio.

In quel vespro, per la prima volta – e tutti, anche se nel ciglio asciutto, ma nel lieve visibile tremore dell’anima – essi si sono per un momento incontrati, fatti adulti per la fede, con la domanda di vita eterna.