C’è gente che se non si complica la vita, non vive. Fa nascere problemi dove non ci sono, complica ancor di più quelli a cui non si può sfuggire. Ingarbuglia, travisa, chiama leoni i gatti e montagne i dossi. E il più delle volte crede d’essere nel vero; qualche volta, invece, pur sapendo di esagerare, non si ferma: o perché non riesce o perché gli sta bene. Il risultato è una rottura nelle relazioni: sia quelle dovute, come di padri in figli, sia di quelle gratuite,

così che si perdono amici prima ancora di goderne.

C’è gente, o siamo un po’ tutti così? Magari a giorni alterni? Tutti tutti, no. Per grazia di Dio ci si incontra con persone che sanno scorgere la semplicità, dove altri non trovano che complessità. Ci sono persone che si rifiutano di avvitarsi attorno a schemi, statuti regolamenti: e incontri e discussioni e progettazioni; e di affrontare ogni cosa per tesi e antitesi. Ci sono quelli che guardano, e s’accorgono: non occorre ogni giorno che il sole vortichi su se stesso per rassicurarsi d’essere ancora vivi. Stanno un attimo prima dal precipitare nell’accidia, e si ritrovano nelle regioni della pace del cuore. Se le incontri, se hai la grazia di incontrare persone così, la semplicità si mette alla tua portata. Non sono persone facili: semplificano, dunque tagliano; sono rudi, non hanno voglia di perder tempo dietro le ruminazioni sterili di tanto prossimo; non amano le ideologie: ti tolgono le illusioni, semplicemente annunciandoti che il cielo di Pechino non è più di bluceramica, ma è inquinato dalle stesse nebbie dei cieli capitalisti. Stanno nelle regioni della pace del cuore, ma senza sfuggire alla realtà. Anzi, più si accetta la realtà, dicono, e più facile diventa vivere.

Fuggono come fosse una parolaccia il termine complessità riferito al mondo: e non perché non abbia una sua verità, ma perché – ormai abusato da filosofi e teologi e conferenzieri di minor tacca – può allontanare dallo sguardo che s’accorge. Dire che anche la Chiesa, nella predicazione del Vangelo, ha bisogno di qualche robusta semplificazione, non può essere letto come un attentato all’apparato: la storia dei filatteri, e della stanza dentro cui ritirarsi a pregare, possono diventare buone piste di meditazione per coloro che presiedono alle celebrazioni del Giubileo. Per non esagerare, per non nascondere il tesoro: per non scambiare il Giubileo – che chiede di perdere – con una gran festa che vuol guadagnare. Neppure le anime? Neppure.

Certe eccessive sottolineature dei temi personali a scapito dei temi del trascendente, non è vero che facilitano la fede: la complicano; certa esasperata attenzione ai linguaggi che s’adeguano al mondo, piuttosto che chiamare il mondo alla lingua sobria del Vangelo, servono solo a un consumismo religioso da usa e getta, da senza memoria. E senza memoria, noi cristiani non siamo nulla, non celebriamo nulla, non abbiamo nessuno con noi. Anche per il Giubileo c’è bisogno d’incontrare le persone dell’essenziale, le sole che portino la semplicità dei detti e dei fatti di Gesù.