Se alle quattro del pomeriggio di questo strano mese di marzo vi siete trovati a correre nel cielo di Lombardia, che sprofonda sull’asfalto con il terso vigore preso a prestito da oltralpe; e ancora da lontano avete ammirato nella stessa vicinanza e Città alta e la Presolana, in una armonia così intensa della natura con le costruzioni dell’uomo: come me, avete senz’altro cantato in anticipo

 la Pasqua. Che è sì resurrezione del Cristo, quanto resurrezione del mondo: in inscindibile unità.

La Pasqua è questa passione per la terra, per la sua luce e per il suo calore, per le sue acque e le sue rocce, per il suo pane e il suo vino. Pasqua è questa primavera anticipata, innaturale nel suo offrirsi fuori tempo e goduta tuttavia come un dono. Pasqua è un anticipo dei segni di salvezza, una pazzia concessa alle menti spirituali. Pasqua è credere che il dovere dell’ottimismo e della speranza è da riconoscere ai giovani: senza calcarli nel dovere di essere adulti con un voto politico a sedici anni, quando l’intelligenza chiederebbe di spostarlo a ventuno. Pasqua è mostrare la promessa di una terra dove non si costringono gli Albanesi di Albania, e gli Albanesi di qualsiasi continente, a stare nella loro guerra. Pasqua è non permettere più alle accuse di demagogismo di soffocare la ribellione per stipendi immorali a fubbalieri e divi televisivi, asseverando l’idea che c’è chi può e c’è chi guarda, pur lavorando tutti almeno con la stessa fatica. Pasqua è opporsi a un mondo clonato, a un vocabolario ridotto, a una scuola appiattita. Pasqua è rifiutarsi a un orizzonte modesto.

La Pasqua degli Ebrei era già gran cosa: strada che aveva portato lontano dalla schiavitù. E la Pasqua dei Cristiani portava a compimento tutto, in quel sepolcro incredibilmente violato dalla vita. Ma né agli uni né agli altri è stato risparmiato di rifabbricarsela la propria Pasqua, giorno dopo giorno, di generazione in generazione: camminando sempre oltre attraverso dolorose diaspore, o chiamandosi fuori dai rinnovati sepolcreti di egoismo e di arroganza. Questione di responsabilità personale per ciascun uomo chiamato alla vita, avendo in comune un Dio che non ci tratta da schiavi ma da liberi. Questione di intelligenza, per chi non si fermi alla superficie dei giorni: è una Pasqua monca solo per chi si rintanasse a leccarsi ferite, e ad imprecare nella tempesta e nella sventura, per chi si aspetta che la redenzione, già avvenuta, non porti con sé il compito difficile di imparare il prezzo della salvezza. Una rinnovata intelligenza di come stare nel mondo: distinti senza essere separati; critici senza essere sprezzanti; propositivi senza essere esclusivi. E’ la visibilità della redenzione che oggi i Cristiani possono chiedere per sé: perché gli amici abbiano un nuovo nome con un nuovo amore; e perché i nemici siano privati della loro carica di male.

Se coniugate il corruccio del cielo alpino con la trasparenza luminosa dei cieli continentali, potete farvi un’idea del già e non ancora che perseguita le nostre povere vite. Ma già potrete annusare, nel vento dell’Atlantico o nel soffio degli abeti, la varietà dell’infinito a cui siamo chiamati per la Pasqua ottenutaci da Gesù di Nazareth. Anche se per ora la varietà non sta mai solo nella festa, su questa terra.