“Da quando tua madre è morta, non parlo più con Dio”. Solo un ebreo può dire una frase così ad un figlio che lo invita a pregare. Siamo in un film americano, dove il giorno dell’indipendenza coincide con il giorno in cui l’umanità supera finalmente i confini di razze e d’ideologie, e si ritrova insieme contro un comune nemico che viene dai mondi lontani dal sistema solare. Può sembrare un’americanata: ingenuo nelle elaborate e fortunose soluzioni, e con effetti

 speciali che attanagliano lo sguardo e liberano l’adrenalina. Può sembrare, ma non è un’americanata: ci stanno aspirazioni e speranze, intelligenza e cuore. Ci stanno le storie piccole a dare spessore a quella grande: si ritrovano sentimenti accantonati, ci si accorge di non essere soli nel bisogno, si scoperchiano i moti di stima per persone di valore, trattenuti per un distorto pudore; e chi non si stima, trova in sé l’eroe che non ha mai sospettato di poter essere. Che sono poi le storie delle nostre vite, che la magia di un buon film sa rimettere in corsa nei propositi: quando le lenti s’appannano, quando le coordinate si disperdono, o quando l’alba di certi giorni non è invitante.

E c’è, dentro, quella risposta, che solo un ebreo ha il coraggio di pronunciare: quietamente ma risolutamente. Perché gli ebrei hanno imparato a trattare Dio come Lui vuol essere trattato: con la determinazione di Giobbe e la negoziazione di Abramo, nell’assolutezza di una fede che in ogni caso si dispone. Quando chi si ama ci è strappato, quando la vita si capovolge, occorre presentare il conto: e a chi, se non a Dio? Non è lui il più importante, il Benedetto, colui cui tutte le cose debbono se stesse? Decidere di non parlare con Dio è un fragore più tonante di ogni altra parola; è costringerlo a inseguirti, è avere il piacere del suo starti d’attorno a chiedere la tua pietà, per questo mondo che gli è sfuggito di mano, e ha introdotto la morte: di tuo padre, di tuo figlio, di chi non lascia intatta, andandosene, la tua vita. Occorrono forza e rassegnazione assieme, miscelate con una giusta dose di ironia che nasce da un sentirsi intimo con il Creatore: gli ebrei sembrano possedere la sperimentazione della Sua fedeltà attraccata alle loro viscere più profonde. Per questo risalgono sempre, e si consegnano: e finiscono per ascoltare di nuovo, e di nuovo parlano con Dio – con il tono sostenuto di un figlio che pensa al torto subito dal padre, ma avendo la riservata percezione che le cose stanno altrimenti.

Non siamo noi figli dello stesso popolo? Perché dunque i cristiani non sanno non parlare a Dio? Forse perché presumono di saper dire; e pensano di parlargli per quei suoni vuoti e stereotipati, per quei ragionamenti senza incarnazione, e per quei discorsi che estraggono dalle loro viscere senza la consapevolezza delle proprie mutilazioni. Come può esserci un interlocutore come Dio, per chi s’annebbia per evitare d’essere toccato dal dolore? Lui, che ha mandato il Figlio perché fosse parola crocifissa, come può ascoltare chi schiva di prenderlo di petto?

Quando Isacco condotto sul monte non sarà più da solo l’agnello, e quando Abramo non sarà il solo muto tra i figli degli uomini, allora capiremo anche noi, i discepoli di Gesù, che c’è un silenzio con Dio, taluni giorni, che vale al suo cospetto le mille preghiere dei giorni felici.