Sarà per qualche folata, che fa strusciare i rami delle palme sulla finestra, piegando e avvolgendo le affilate lame verdi in un suono lento e cadenzato, che ritma lunghi silenzi sospesi; sarà per questo vento inatteso che viene da non si sa dove a portare la speranza che si rompano finalmente i cieli, a guarire la lunga aridità e a ripulire l’aria: ma anch’io, che sono tra i più disinteressati, sono stato coinvolto dal rosso e dal nero, che in questi giorni

copre le bande di due barche di lusso. Non a tal punto da sperimentare notti appositamente insonni nella luce vitrea di un televisore. Ma quanto basta, nelle pause del giorno, per leggere di questa sfida, e per sognare di un mito che risale dal fondo dei secoli.

Il bello della vela – e questo lo capisco anch’io che non sono conoscitore dell’apposito vocabolario né, tanto meno, praticante di un guscio che per quanto grande risveglierebbe la mia claustrofobia – il bello della vela, a differenza di altri sport, è che oggi puoi sembrare un fenomeno, e domani un brocco. Basta una raffica di vento che soffia a favore del tuo avversario, e dunque altrove da te, e le tue vele si sgonfiano, e perdi. E se sei in alto mare e il vento smette del tutto di spirare, dopo aver aspettato sino al prosciugamento dei viveri, ti rassegni e innesti il motore a cherosene: dici addio all’avventura.

Sarà che il vento è l’immagine dello Spirito: come il vento, lo Spirito del Signore viene da regioni di mistero; si stende, si placa, spinge o trattiene secondo un mistero; non si lascia inscatolare da nulla, e se qualcuno ci prova, sconvolge e distrugge: è il meglio della libertà, perché non si piega a nessuna utilità, per nessun compromesso. Ti lascia a terra, quando vuoi partire, e ti trascina oltre, quando vuoi fermarti. Ha una sua pazzia, ragionevole sempre senza essere calcolatrice. Se pensi di salvare il tuo bagaglio – anche il bagaglio cristiano – ti ricorda la sobrietà del carico che permette, alla forza che fende, la leggerezza che danza.

In un mondo divorato dall’utile, lo Spirito ricorda alla Chiesa la sua inutilità: inutilmente talvolta. Se si gesuitizza su questa radicalità, si chiama Spirito una ventola, che – per quanto grossa – ha sempre una spina che sconfigge il mistero della gratuità che Dio è. La Chiesa si distrugge da sé quando si offre con la forza dell’istituzione, perché mortifica la leggerezza. Quando vuole il consenso delle altre istituzioni, si avvolge nel cappio del potere, e si assimila a quei poteri della terra che il Vangelo non salva. E se richiama su di sé l’attenzione, non nascondendo la mano che fa il bene, incrina l’intimità con il suo Maestro – che non voleva che si sapesse e si dicesse del bene, perché nessuno deviasse le sue attese da Lui alle cose che Lui poteva pur dare.

Un fascino, la regata, che s’affida contemporaneamente alla natura e alla destrezza degli uomini: due elementi che ci si è dimenticato spesso di coniugare tra loro. La Chiesa è energia che sprigiona la grazia ricevuta: questo è il compito che anche una pagina esile non può non evangelizzare. Contro la pesantezza di apparati che non riescono proprio a porre se stessi in conversione, ed esalano dunque la tristezza di ricche vele afflosciate, occorre ricordare che è destrezza andarlo a cercare, il vento, per non fidarsi delle pur raffinate strumentazioni culturali delle nostre barche.