Caro don Attilio,

   sulle dimissioni del Papa, di cui ha parlato il vescovo Lehmann di Magonza, si sono fatte molte parole. Da “una specie di aggressione che suona anche di cattivo gusto” del vescovo di Como, alla “impressione che chi invoca le dimissioni abbia una visione sociologica della Chiesa e della missione del Papa” secondo la sentenza del cardinal Fagiolo. Ho anche letto che l’intervista del vescovo tedesco non era poi del tenore riportato nelle prime notizie: una cattiva comprensione di un congiuntivo lettera firmata

che colpisce in Germania come in Italia tra il possibile e il reale, avrebbe fatto diventare un invito perentorio (“si dimetta”) quella che era una risposta ipotetica (“si può dimettere”). Quello che vorrei sottolineare è che cose così infastidiscono per la loro manipolazione, sia quelli che credono possibile la rinuncia del Papa al suo ufficio, sia quelli che lo desiderano papa fino alla morte. Perché tutti amiamo il Papa, come ha dovuto dire per difendersi quel gran prete che fu don Mazzolari…                                                                                                                                                                         

 

Facciamo che ne parliamo come se fossimo una famiglia d’altri tempi, attorno al focolare di una casa che s’affaccia su un’aia di quelle della bassa, mentre fuori si stende una nebbia – pure d’altri tempi – profonda e avvolgente, misteriosa nel chiamarti fuori e tuttavia così penetrante da farti sentire bene dentro. Per parlare di certe cose occorre l’atmosfera giusta: non quella asettica e iperilluminata e surriscaldata di una redazione di quotidiani – anche di quelli fatti da cattolici – dove il rimbalzo delle notizie non permette più l’ascolto critico, il setaccio necessario, il controllo serio. E dove dunque la voglia di esserci si misura meno sul rispetto degli avvenimenti, quanto più coinvolge una voglia di protagonismo. Che il vescovo di Como abbia perso una nuova occasione di stare zitto, mi pare ovvio dopo la pur recente figuraccia di essere intervenuto su un testo del cardinal Martini senza averlo letto, per sua stessa successiva ammissione: gli si può anche riconoscere di avere i tempi rapidi di reazione dei giornalisti, ma non ha certo il fiuto intelligente dei contadini. Che non bramano di essere sempre primi in prima fila. E a un vescovo si chiede di ponderare tanto, di non trattare nessuno a frecciatine, di avere il massimo confronto prima di emettere un qualsiasi giudizio su chiunque, e specialmente se è un operaio della stessa vigna.

Non che non ci si possa dire le cose, gli uni gli altri, nella Chiesa: anzi, il tema vero di questa vicenda è proprio questo. Nella Chiesa c’è una sorta di omertà (e non c’entra l’indispensabile pietà che copre con il silenzio gli sbagli personali di qualcuno). Un’omertà con le caratteristiche del pudibondo peloso: quel dire e non dire, quel far credere ritirandosi, quell’incappottare gli snodi, quella riverenza che diventa servile quando tende solo a nidificare se stessi all’ombra di chi può. Quel modo prelatizio, appunto, come ci è rimproverato da quelli che ci guardano da fuori, e che intendono una furbizia ammantata da sorrisi non schietti.

Qualche grido si è levato, in quest’ultimo anno, ma si è subito dileguato in una cortina di fumo. Il Papa è davvero ben informato della situazione del cardinale Giordano? Non sarebbe bene che gli suggerisse un ritiro, indipendentemente dalla giustezza del comportamento che gli viene rimproverato dagli organi giudiziari, anche solo data la delicatezza di un argomento quale l’usura, e in una città così provata come Napoli? E si può richiamare l’unicità della propria Chiesa a cui un vescovo è nominato, perché non sia tentato di passare da una diocesi all’altra in una sorta di avanzamento di carriera? L’hanno fatto i cardinali Gantin e Ratzinger, che sicuramente sanno quel che dicono, e sicuramente amano il Papa anche loro. E, preoccupati dai nodi sempre più complessi che la cultura di oggi mostra, non amano forse il Papa e la Chiesa il cardinal Martini e il vescovo Lehmann, che in egual modo pongono la necessità di riunirsi periodicamente a Concilio, con l’autorità che discende loro dagli Apostoli, senza la mediazione di curie che non sempre hanno officiali illuminati, quando pure sono istruiti?

Dunque, che problema c’è a citare ad alta voce un canone del codice di diritto canonico, se riguarda la possibilità anche per il vescovo di Roma di dimettersi spontaneamente dal suo servizio? Che problema c’è, se viene letto in risposta a domanda precisa, sullo stato di pienezza attuale del Papa, nei riguardi di una Chiesa “con così tante, fortissime differenze” che chiedono una guida forte? Un attentato alla paternità? Ma quando mai? Si pensa forse che si vogliano relegare fuori le mura un papà e una mamma infermi, quando ci si chiede se ancora possono reggere le responsabilità di una casa? Chi nega la bellezza di una debolezza testimoniata proprio là dove la tentazione del potere non permette che si veda il re nudo? Chi rinnega la forza insita nella fragilità fisica di questo grande Papa, che la offre al mondo senza falsi pudori?

Il problema non sta nell’accettazione di un padre provato da ben sei interventi chirurgici, dopo che una pallottola gli ha certamente violentato l’anima più del corpo. Se la responsabilità c’è quando c’è informazione diretta degli avvenimenti, e lucidità critica nella determinazione dell’agire, il problema nascerebbe per un Papa, indebolito nella responsabilità, che venisse sostituito da qualcun altro che si arroga un diritto senza averne l’autorità. I modi sono soft, ma i concetti duri, quando il vescovo Lehmann aggiunge, nella sua intervista, di non essere sicuro che le persone attorno al Papa e tutti coloro che gli danno consiglio siano d’accordo con un suo ritiro. E non è di poco conto che, all’indomani dell’apertura della porta santa, l’entourage del Papa sia stato chiamato in causa dal disagio di uno scrittore cattolico che ha avuto, alcuni anni fa, il privilegio di una frequentazione del papa trasformatasi in un libro. Il disagio – avanzato senza il formale rispetto dei non credenti, ma con la decisione di un cattolico tutto d’un pezzo che crede la chiesa una santa e apostolica – consiste nel vedere chi gestisce l’immagine pubblica del Papa troppo tentato dalla spettacolarizzazione della Sua vita e delle Sue azioni. Non essere d’accordo sulla stoffa speciale e irripetibile tessuta per il mantello papale (è un piccolo esempio, ma è un grande sintomo di infausti fasti) non è un attentato alla sede di Pietro: e non è neppure una polemica superficiale. Semmai è un rimprovero per aver ceduto alle regole della resa televisiva, fatto a quel prelato molto compiaciuto davanti alle telecamere nel dire d’avere benignamente “assecondato chi ha voluto un tessuto della stessa fibra usato ormai dai corpi di ballo televisivi”. Scavalcando oltre tutto le regole imposte ad ogni piccolo prete riguardo al colore delle vesti liturgiche; e, qui sì, il buon gusto nell’appaiare le ballerine al santo Padre.

A memoria storica, solo Celestino papa si è dimesso; e dal successore è stato in un certo qual modo sequestrato, per paura che nascesse uno scisma tra chi lo intendeva ancora legittimamente a capo della Chiesa e chi legittimamente non lo intendeva più tale. Proprio questo unico caso può far pensare a dei problemi seri sulla purezza di tutti i membri della Chiesa chiamati all’accoglienza di una tale evenienza; e per contro sulla possibile impurità che li può far schierare a parteggiare. Dove va il Papa dimesso? a quale silenzio lo si deve invitare? I problemi, di fronte a una tale possibilità di ritiro, ci sono e non si debbono nascondere, e si debbono ponderare bene: perché dunque non parlarne? Per dire che, se il Papa sta bene, noi siamo felicissimi: risparmia ai cattolici qualche grattacapo in più. Ma poter parlare è un diritto nella Chiesa, che non è monarchia, ma una fraternità. Se non ci si corregge nell’anno di Giubileo gli uni gli altri – e più dal basso all’alto, per rompere una certa presunzione di sapere di più e meglio che inevitabilmente incrosta chi è chiamato a potere – a che serve l’anno di grazia?

La notte si è allungata con la distesa della nebbia. E il fuoco sul camino è brace. La carità della verità può far dormire sonni tranquilli.