Ha un nome, Salóme, la mamma dei figli di Zebedeo, padrone di barche per la pesca. Sta nella cerchia del nuovo Maestro, probabilmente non a tempo pieno, ma è presente abbastanza spesso. Ha una connotazione che è particolare nel Vangelo, ma diffusa in ogni tempo e in ogni regione: si preoccupa del futuro dei suoi figli. Dire che è per questo che si mette lei stessa alla sequela di Gesù, forse è un po’ troppo, ma sapendo come è fatto il cuore

 di una mamma non si può sbagliare di molto. Appena sente raccontare del Figlio dell’uomo seduto nella sua gloria, e delle dodici poltrone riservate agli apostoli, tira in disparte Gesù e senza tanti raggiri gli chiede che i suoi figli abbiano il posto due e il posto tre, dunque i posti migliori. Non argomenta sul perché proprio a loro: ma se il cuore da solo non ha ragioni convincenti, le ragioni di una madre non badano a sottigliezze. Ambizioni familiari e personali accompagnano la sua fede, certamente un po’ la condizionano, e la sporcano, ma tant’è: quei figli meritano un poco di faccia di tolla. Con altre donne accudisce quei maschi vagabondi di Dio, in una convivenza che non può non preoccuparsi delle concretezze della terra; ma lei ha meriti che le altre non possono far valere, perché non hanno figli dentro il gruppo.

La terrestrità dei seguaci del Figlio di Dio è inoppugnabile. E non parlo del lato buono che l’incarnazione chiede. Ma di quella polvere – che s’aggruma talvolta in zolle fangose – che rende tutti noi un po’ mogli (dimentiche?) di Zebedeo e madri parziali. Abbiamo senz’altro un occhio alla vita eterna (e come potrebbe non essere?), ma l’altro occhio e le orecchie e le mani ben protesi alla vanità del mondo. Troppo, talvolta, tanto da nascondere a noi stessi molto spesso il fine per cui Dio ci ha creati, e i sobri mezzi che il vangelo indica per raggiungerlo. E fosse solo nella singolarità peccatrice che ogni cristiano è! È un problema decisamente più difficile quando la Chiesa si protende verso le certezze del mondo, a chiedere per sé una visibilità fatta di riconoscimenti e di ruoli, di onori e di posti. O quando non si lascia allarmare dal piccolo nepotismo, nuovo nelle forme, ma non meno squallido quando promuove chi serve sé – o chi la pensa come te – talvolta persino usando dell’episcopato come potesse essere un premio, e una diocesi come un avanzamento di carriera. O quando scambia il lieve suono della voce di Dio – che solo il silenzio del deserto sa propagare – con spartiti musicali camuffati di preghiera, a celebrare capodanni che, per i cristiani, nulla hanno a che fare con il cosiddetto compleanno di Gesù. Neppure simbolicamente, dato che la soglia è già varcata nella liturgia del Natale.

Una sbandata, qualche sbandata, è concessa a tutti: non è concesso di farne una filosofia della vita, un progetto culturale. Anche Salóme, con uno dei suoi figli, è ai piedi della croce. Lì le si è rivelato quale è il posto giusto del discepolo: dentro lo scherno del mondo, lontano dal potere che non può che essere nemico della limpidezza del Nazareno. Anche per questo ha potuto vedere pienamente realizzata in uno dei figli la sua ambizione: a Giovanni Gesù affida sua Madre. Che se è uno strappo in più – un po’ meno figlio suo perché ormai figlio anche di Maria – per Salóme è tuttavia gioia. Lei, alla fine, è nel posto giusto.