Sono talvolta chiamato a dare un qualche mio contributo ad altre comunità, parrocchiali e non, in provincia o fuori. E solitamente provo grande ammirazione per le persone e le situazioni che incontro, per l’entusiasmo, per le cose fatte bene, per la tensione al meglio che mi pare di vedere. Ne ritorno sempre caricato. E con la sensazione che qui da noi manchi qualcosa. Poi, succede che altri passino da noi: e dicano nei nostri riguardi una uguale ammirazione,
per quanto naturalmente questo termine sia da prendere senza accentuazioni esagerate. C’è una sorta di pessimismo su di sé che si alimenta dell’ottimismo sugli altri: che è esemplare per progredire nella santità personale, ma si rende pericoloso in un contesto di comunità. Della pericolosità di chi si inducesse a pensarsi meglio altrove e con altri, piuttosto che nei fatti della sua vita: familiare con i suoi, nelle situazioni geografiche e storiche dove è chiamato. Ma anche della pericolosità che nasce dal non apprezzare il bene che sta avvenendo, incompiuto, manchevole, parziale fin che si vuole, ma non meno degno se è frutto di laboriosità intelligente e faticata, e di abbandono a Dio.
Da dove venga la disparità di giudizio è presto detto: lo stare dentro mostra più l’usura dei rapporti, e una assuefazione che non mostra più lo speciale che rende caratteristico agli altri il proprio modo di essere; lo star fuori rende peculiare quanto forse è solo diverso per facce e per gesti. Siamo afflitti dalla ripetitività della vita – della vita di comunità, da un complesso di creazionismo che teme la normalità? E, dall’altra parte: il non chiamarsi alla bellezza di ciò che si sta agendo, quanto incide sulla stanchezza a venire?
Eppure, chi buttasse uno sguardo da fuori, dentro le nostre piccole o ampie convocazioni, potrebbe – almeno alla pari – ricavarne la stessa sensazione di apprezzamento, e la voglia di star dentro. Il calore del cammino dei fidanzati, che ha fatto ripartire molti giovani nell’impegno cristiano, dopo gli anni dell’allontanamento. Il fermento di tante sere al Centro, tra ragazzi e adulti che s’incrociano e prendono posti diversi per inviti diversi: animazione educativa, studi biblici, attività scoutistiche. L’accuratezza liturgica, nell’arco così dissimile che va dalle feste ai funerali, che chiamano all’intimità con il Signore nella essenzialità dei gesti e della comunione dei sentimenti. La stima reciproca del gruppo che attende alla progettazione delle spese per le manutenzioni ordinarie e straordinarie. La disponibilità di chi settimanalmente si dà alla catechesi dei ragazzi e degli adulti, di chi giornalmente si presta alla organizzazione della comunità nel lavoro di segreteria, di chi mensilmente pensa e consegna gli strumenti di comunicazione. La condivisione discreta e fattiva, nelle accoglienze per la malattia in esilio, di chi si fa presenza a nome di tutti i cristiani di qui. La grazia che aleggia dentro la novità di un Consiglio proteso all’ascolto dello Spirito, che già ci fa Chiesa mentre pensiamo a come renderla possibile. Cose grandi e cose piccole; e tante altre: come la mensa che quotidianamente contribuisce alla piacevole fraternità dei preti tra loro. Non si crede mai davvero che certe cose succedano davvero.
Chi buttasse uno sguardo da fuori, potrebbe generosamente invidiarci. Perché, da dentro, non rendersene conto? Non per vana supponenza, ma per non annegare, oggi, nell’assillo di qualcos’altro e qualcun altro: esso rimane sempre oltre, rispetto a ciò che ci fa oggi navigare.