Dice il Levitico: interromperai il tempo nel giorno di sabato. E nell’anno settimo non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé: anche la terra chiede un riposo assoluto, il suo sabato sacro a Dio. E nell’anno che viene dopo sette anni moltiplicati per sette tutto il popolo avrà il giubileo, la sua liberazione da ogni schiavitù economica contratta. Tutto torni come all’inizio: quando Dio fece con gratuità il mondo, la terra che sta in terra e il cielo che sta in cielo. Con suono di jôbel, fate festa, con suono di tromba annunciate
che Dio si mostra di nuovo come l’unico garante delle cose che ha creato per tutti gli uomini. Riscatterete ciò che gli uomini hanno sottratto ai loro fratelli, ritornerete nella vostra proprietà e nella vostra famiglia. In tutti i luoghi dove abiterete, io sono il Signore vostro Dio.
Dice un proverbio: tutto il tempo è attaccato. E poiché la saggezza degli uomini ha spesso prevalso sulla Sacra Scrittura, quelle prescrizioni non sono mai state davvero prese in considerazione nella loro interezza. Con buone scusanti umane: perché è vero che Dio ha promesso di provvedere in quel tempo interrotto, ma Lui è tanto lontano, e le complicazioni delle leggi invece stanno molto vicino a noi; così come le furbizie di chi lavora poco o le rimostranze di chi ha sgobbato e prodotto. E così la Chiesa ha fatto i suoi giubilei trasportandoli sul piano spirituale: per i cristiani è il condono dei debiti che hanno contratto con Dio. Che non è cosa da poco, e per nulla disprezzabile. Ma la terra – e i debiti contratti con essa? Ma gli uomini, creditori di una vivibilità sommersa dai mille paletti a rinserrare proprietà e ad escludere come stranieri persino i fratelli di sangue e di battesimo? E’ vero che i debiti condonati a noi da Dio chiedono di condonare a nostra volta: ma gli interlocutori spesso non s’incrociano né sulle strade del quotidiano né in quelle di un giubileo.
Nell’anno dell’estremo addio a un millennio, nessuno si sognerebbe di riproporre una rigidità che riconducesse le cose e le persone a com’erano. Abbiamo fabbricato un mondo così complesso, e persone così diverse dagli Adamo ed Eva usciti dalle mani di Dio, che sarebbe un rimedio peggiore del male in cui ci siamo imprigionati. In questo mondo non servono uomini riflessivi, al contrario servono sempre più degli esseri capaci di fare le scarpe o di pilotare un aereo, che consumino tanto e si divertano come fan tutti, in discoteca o nello shopping dei centri commerciali. La cosa importante è una sola: non fare la differenza, perché altrimenti si corre il rischio di non starci in questo mondo tutto eguale da est ad ovest. Una volta si guardava a oriente o ad occidente con mistero, in cerca di mondi nuovi, ma oggi sappiamo che v’è l’uomo del Giappone e l’uomo dell’America, che vivono né più né meno come l’uomo di Milano. Niente più illusioni, niente più mistero.
Ci sono troppe cose da fare. Chi ce lo fa fare di fermarci a pensare? Per molti giovani al sabato non c’è più nemmeno il tempo per dormire, volete che si fermino a riflettere e che rinuncino alla loro “meritata” evasione? L’adulto, la domenica passa il tempo facendo lavoretti domestici, si concede al massimo la “meritata” pizza settimanale, con fatica ricomincia il lunedì, in attesa della pensione, dove finalmente riposerà per sempre. Che fare di più? In fondo si è soddisfatti così, la vita viene scandita con terrestre regolarità, un passo per volta, nei suoi aspetti pubblici e privati, perfino nelle speranze che la rendono “degna” d’essere vissuta: la speranza di un sabato perpetuo per i giovani e di una domenica perpetua per l’adulto. Ma quel sabato e quella domenica, che non sono certo giorni del Signore. Che senso ha oggi fare un giubileo a Roma e interrompere il tempo della gente? Che senso ha chiamare nelle nostre chiese, per l’Eucarestia della domenica, chi trova ormai in altre piazze, in altre affollatissime processioni automobilistiche e nei nuovi santuari delle botteghe il proprio cuore? La tentazione di inseguirli nei loro tempi, per piantare una messa in una cappella ai crocicchi dei “divertimentifici”, non obbedisce essa stessa alle leggi del consumismo? In un mondo così si manca di tempo.
Darsi un tempo per riflettere, significa riconoscere che il tempo non ci appartiene. Riconoscere che il tempo non ci appartiene significa darsi un tempo per riflettere. E’ un circolo, al quale ci si abitua tramite un esercizio quotidiano, fatto di interruzione dei ritmi e dei riti che il mondo impone: l’unico modo, forse, per far esplodere le strutture che a lungo andare rischiano di soffocarci, ordinate come sono al trionfo dell’avidità e nel seno delle quali l’avido stesso finisce per annientarsi.