Le agenzie di viaggio stanno già circuendo i possibili clienti. Gruppi e parrocchie hanno cominciato a pensarci. La città di Roma si sta dilaniando politicamente per sottopassaggi del Tevere o ponticelli pedonali sospesi. Quelli di Milano vogliono anche loro i soldi del Giubileo, e non si capisce bene perché non li chiedano quelli di Bolzano o di Brindisi. La macchina si è messa in moto: e forse non ci riuscirà proprio di sfuggire alla sua ambiguità. L’appuntamento alla sede di Pietro avrà per i cristiani lo stesso intenso desiderio dei pellegrini alla Mecca? L’appuntamento di una vita?
Sentendo le previsioni che calcolano in decine di milioni coloro che invaderanno il colonnato del Bernini allo scorcio del secolo, parrebbe di sì. Se poi saranno sentimenti religiosi puri – quelli che fanno del pellegrinaggio una epifania della propria determinazione per Dio – lo vedranno i posteri. Adesso e qui il Giubileo, e la sua preparazione, non può che porre domande. Ad esempio, quale papa troveremo a Roma? Si chiamerà Giovanni Paolo II, o sarà un altro? Qualunque egli sia, lo troveremo in Vaticano o a Zagarolo, trentaquattro chilometri più ad est?
Per chi non conoscesse il romanzo di Morselli, pubblicato vent’anni fa, occorre una spiegazione. Lì s’immagina che il pellegrino di fine-secolo-ventesimo trovi una Roma senza papa, una città dissestata e disfatta dalla sua assenza, con i Romani – che sempre ce l’avevano con il papa che c’era – che ora ce l’hanno con il papa che non c’è. Un esilio programmato: in un paesotto della campagna romana, per scappare dalle pomposità dei palazzi, e per offrire l’immagine di un ospite, non più soggetto ad etichette, in un motel come tanti. Un esilio così non solo è disastro per l’economia, non solo spegne le luci della storia, ma ancor più provoca il cicaleccio teologico: sentendosi ormai ciascuno libero dall’ombra della presenza apostolica. Per il desiderio di un ritorno alle origini, dunque, la perdita dell’unità.
La presenza del papa nella Chiesa, servitore di verità, fondamento sul fondamento degli Apostoli, potrebbe essere la meta chiara di una proposta di cammino verso il centro della cristianità, in un tempo dove le comunità si stanno disgregando sull’onda di sincretismi? Ricondursi alla semplicità dei linguaggi, e dunque sconfiggere la babele delle lingue, non vuol forse dire rimettersi davanti l’uomo per cui la Chiesa è, e dunque anche il papa? Se il passaggio del millennio lasciasse finalmente alle spalle certi bizantinismi in nome dei quali l’ortodossia s’è frantumata; e se si rinunciasse definitivamente all’immagine di sovranità papale così deleteriamente trasmessa dagli apparati, e dalle vesti liturgiche sempre nuove con cui lo si obbliga a presentarsi al mondo, per sottolineare il servus servorum Dei che egli è; se ci si occupasse di più della fatica di vivere senza ipocrisie dei cristiani del nostro tempo, meno colpevolizzando la carne che il Verbo non ha disdegnato facendosi uomo: non si farebbe del Vaticano una Zagarolo con papa? Non si coniugherebbe cioè il bene della semplicità con il bene dell’unità?
Se i pellegrini troveranno un papa, chi troveranno come papa? Per le recenti cronache sulle malattie di Giovanni Paolo, ci si è divisi – ormai secondo canoni divenuti classici – tra chi si è lamentato delle troppe attenzioni per lui e chi ha sottolineato il bene di quelle attenzioni. E’ più di una impressione che i media si gettino su di lui come corvi, allontanandosi quando la morte non sembra imminente: a dire che il prurito delle novità – la novità della successione – colpisce immancabilmente chi non ha sguardo per le cose che contano. Ma avere un papa in tutto simile a un uomo, che smette i suoi panni perché la malattia lo ferisce, così come ogni uomo; la sua fragilità offerta alla pietà di chi vuol condividere, non è forse la buona notizia per eccellenza offerta a chi della passione di Cristo è per eccellenza il testimone vicario sulla terra? Trovare, al termine di un pellegrinaggio alle tombe degli Apostoli, chi ti accoglie con la sua debolezza, non è smaltire la fatica di ogni anima che ha provato nel deserto di sé la tentazione di arrendersi al sole che picchia e alla sabbia che flagella? Sentire la nostalgia per il papa degli inizi, robusto, nel passo e nella voce, nelle proclamazioni e nei richiami, sarebbe sfuggire al dono del presente: che è l’unico dono che salva.
Se non si chiamerà più allo stesso modo; se sarà un papa nuovo che accoglierà chi vuol determinarsi nella sua fede alla sorgente di Pietro e di Paolo, quella sarà la speranza data dal Signore: uno dei tanti volti, e delle tante risposte, che l’oggi non può sapere del proprio futuro di Chiesa.