L’amore di Dio e l’amore del prossimo sono le due categorie dentro cui siamo stati educati: temi prevalenti delle formazioni spirituali e delle opere proposte dalla religiosità. Mettere a tema l’amore di sé è più di una provocazione: è lacuna che è tempo di riempire. Lo si è sempre glissato, tanto che oggi è difficile trovare contributi sull’argomento. Glissato anche per un’intrinseca difficoltà psicologica, rispetto a quell’altruismo che sembra il vertice dell’esperienza d’amore: una sorta di chiamata all’eroismo, di cui l’amore di sé sembra essere un gradino inferiore.

L’obiettivo che ci proponiamo con questo dossier è quello di mostrare la necessità di parlarne, e non ancora, forse, la necessaria bellezza di questo particolare amore: proprio per la mancanza di trattazioni specifiche di maestri di spiritualità. Eppure all’inizio del comandamento dell’amore c’è quel comparativo senza del quale riesce difficile capire l’insegnamento evangelico: come ami te, così ama il tuo prossimo. Un cinquanta per cento di amore di sé e un cinquanta per cento di amore del prossimo. E non sembri avventata la traduzione in percentuale: è forse l’unico modo per esprimere la quantità della qualità che è richiesta nell’amore di sé per l’amore del prossimo.

 Ci possono soccorrere alcuni fatti che si vedono nelle comunità cristiane, e che sono lì ad avvertirci di distorsioni nelle relazioni tra le persone. L’eccesso di altruismo che affligge alcune persone, e le affligge proprio anche in termini fisici: quelli che si consumano per il prossimo, che si estraniano da sé per gli altri, che dimenticano le elementarità del dover essere per l’urgenza del voler fare. Gente che si distrugge, tirando dentro l’abisso anche quei legami familiari verso i quali non hanno più richiamo. Gente che non sopporta mai di sentirsi interrogare sulla chiarezza dei sentimenti che li muove. Se qualcuno osasse mettere in dubbio il loro amore del prossimo, immediatamente darebbero la prova del nove: li odierebbero. O farebbero le vittime, dandosi all’accattonaggio dei consensi che per carità nessuno nega a nessuna di quelle anime in pena: perpetuando così la catena di una autoconvinzione che si nutre di se stessa. Nel peggiore dei casi, s’aggirano nelle comunità e nei movimenti dei casi patologici; nel migliore, persone che cercano solo una compensazione, e che per questo impongono il loro modo di servire come l’unico possibile e il più eroico. E’ quello che succede anche ad alcune mamme, di cui C.S.Lewis fa uno spassoso quanto allarmante quadretto alle pagine 67-69 de I quattro amori (ed. Jaca Book). Ma succede anche agli insegnanti: succede ai catechisti e ai preti? Prendersi in carico qualcuno senza averne i mezzi è un moto estremamente egoista, di ripiegamento su di sé: è il famigerato amor proprio che nulla ha da spartire con l’amore di sé.

 Un altruismo distorto è un amore privo di sé. Perché ci sia amore occorre equilibrio, armonia in sé innanzitutto. E’ facile riconoscere la distinzione assoluta tra l’amore idolatrico di sé – l’amore autocentrico – e un amore verso di sé ordinato. Quest’ultimo “si nutre della coscienza di non bastarsi, si vede come un seme da far fruttificare, o come il punto di affioramento possibile dello spirituale, o addirittura del divino nel mondo” (G. Marcel). L’armonia – che si stabilisce fin da piccoli o che si può in parte recuperare da adulti – consiste in due movimenti. Il primo consiste non nel mostrare compiacimento, ma nel piazzarsi verso di sé con il gusto di poter ottenere da sé la realizzazione più alta: mentre si esprime la consapevolezza di poter divenire qualcuno che vale, si evita la stupidità della vanità, proprio perché ciò che si sente di poter essere ancora non è: è la parte costruttiva dell’amore, quella dello stupore. Il secondo movimento sta nell’avere tenerezza per sé, bandendo durezze che possono diventare paralizzanti: è la parte dolce dell’amore, quella che sa perdonare. E’ condizione irrinunciabile dell’amore degli altri la coltivazione di questi sentimenti per sé. Come avere stima e come perdonare il prossimo, se non c’è autostima e se ci si nutre di malevolenza verso la propria vita? Una delle cose migliori che un penitente angosciato può sentirsi dire da un confessore è: impara a perdonarti il tuo peccato. La pazienza verso di sé è il miglior atto d’amore che prepara l’amore verso gli altri: perché non sarebbe un comandamento per i cristiani l’amore, se non contenesse la fatica della pazienza per un prossimo (lo siamo anche noi per gli altri) ingrato, indifferente o scostante. Perché l’amore sia corrisposto, serve che ci siano due centri d’amore, i due io; serve comunque che l’amore per l’altro parta da una consapevolezza d’amore per sé: anche per evitare sull’altro possessi ed eccessi, quelli che ciascuno chiede di non avere per sé; serve che l’ io sia riconosciuto nella sua interezza e nella sua essenzialità, e non incontrato per le coccole che svisano la verità dell’amore, e della persona che si ama. Se ci si provasse a leggere il Vangelo secondo queste categorie, ce ne verrà una luce altrimenti insospettabile: quella appunto nascosta nelle pieghe di quella frase che abbiamo imparato a metà: ama il prossimo tuo come te stesso. Nella più consolante delle parabole, anche per la personificazione che facciamo con il Padre che sta nei cieli, si può capire con i sensi dell’anima l’amore che inverte le regole della terra – l’offeso che corre incontro al colpevole: è il pieno amore di sé che stabilisce di nuovo la relazione con l’altro!

 Come nutrirsi di un amore di sé? Intanto non usando l’espressione “un corretto amore di sé”, dove corretto potrebbe assumere i connotati rigoristici che conosciamo: ricondurrebbe a quelle riduzioni di cui sono state maestre sia la morale sia l’ascetica, con le categorie – insufficienti perché assolutizzate, e dunque pericolose – del rinnegamento di sé, del rifiuto del corpo, dell’uso delle cose solo a vantaggio degli altri. Usando l’espressione “un sano altruismo”, che richiama un sano egoismo. Il vero amore è sempre sovrabbondante, non teme d’impoverirsi mentre si dà. E’ fonte di vita per gli altri se attinge alla vita che è in sé, che è come dire: chi ha per sé gli avanza sempre per gli altri. So che qualcuno potrebbe spaurirsi di fronte a un uso dei termini che sono capovolti rispetto alla cultura che ci si è dati sul tema. Ma davvero, a ben pensarci, la pienezza dell’amare avviene da una sovrabbondanza che parte da sé, e solo così si evitano gli scogli dell’invidia, o della tristezza per le ingratitudini, o la tentazione dei protagonismi nel fare la carità. Ecco perché serve attingere, ricaricarsi, fare rifornimenti per sé: è l’unica condizione per non mancare quando l’altro vuole il bene, il tuo bene. Se solo si traguardassero certe vite di santi – e ci sono degli ottimi studi recenti – non ci si lascerebbe più tanto sbigottire dalla loro enorme presenza agli altri, quanto ci si lascerebbe meravigliare dallo stupore che avevano dentro di sé: non è forse amore di sé, che conduce ai sì che contano – a Dio e al prossimo – la gioia che Maria di Nazareth esprime quando riconoscendo le grandi cose che l’Onnipotente ha fatto in lei, si dice sicura che le generazioni future la chiameranno beata?

Accettare che non c’è amore per gli altri che non sia anche autorealizzazione di sé, è riconoscere l’amore di Dio che irrompe in me: c’è qualcosa di più lontano dalla vanità di questo, e dalla superbia che ne è stolta madre? Che questo amore di sé possa macchiarsi qualche volta di peccato, non è buona ragione per non desiderarlo e non farlo avvenire. Come dice il filosofo Gabriel Marcel, la frontiera tra l’ in me e il davanti a me viene meno proprio nell’amore: si dà ciò che si ha, dice un proverbio. Sosteniamolo con le idee chiare e distinte sull’amore di sé.