Di Natale, i bambini prendono il sopravvento. O almeno questo era storia di tanti tanti anni fa. Perché, adesso, ce ne occupiamo sempre: soprattutto se di mezzo vi sono consumi da inseguire, e shopping da frequentare, o concorsi per attori in erba in cui sfondare. O se ci sono réportages da inventare, telefoni azzurri da sostenere, lacrime da spremere… Insomma, soldi da far girare. Quest’anno i presepi, ci giurerei, avranno molti cassonetti al posto delle culle; o discariche,
o argini di torrenti, e non certo per un ecologismo di ritorno: quale posto migliore per sottolineare l’incarnazione del Figlio di Dio del posto che hanno trovato così disperatamente ai figli degli uomini?
O saranno collocati, quest’anno i presepi, sul postale di Internet, dove viaggiano i mercanti invisibili dello sfruttamento sessuale dei minori? Si sono già fatti presepi con siringhe e mitra. Ora il terzo posto nella classifica dei commerci illegali che l’abuso sui minori si è acquistato, chiama scenari soprattutto asiatici, ma variazioni si possono anche collocare altrove. Qualcuno ha detto che i fatti del Belgio sono solo la punta di un iceberg: ma, per un presepe, è scenografia già abusata il pezzo di ghiaccio preso a prestito di tutto ciò che è diabolicamente sommerso.
Adesso i bambini sono al centro non solo a Natale, in quel giorno che una volta riassumeva il passato e preparava il futuro: adesso sono al centro sempre. E non sempre è un bene.
Stanno al centro delle guerre che gli adulti fanno per il bene delle future generazioni. “Quando vieni a sapere di un attacco terrorista a una famiglia israeliana, i cui bambini sono uccisi, provi pietà?”. “E’ una questione di matematica – risponde una ragazza -; più israeliani muoiono, più posto resta agli arabi”. Se cambiate il campo di guerra, le risposte non cambiano: a cominciare dai ragazzi della Cambogia o del Messico, in Bosnia o in Irlanda. Ovunque una guerra moderna abbia messo bambini di mezzo; o davanti ai cortei della guerriglia, e non tanto per trattenere il nemico dall’assalire, quanto perché diventino piccoli guerrieri che imparano l’odio. Questi figli conoscono non per sentito dire, come i nostri, ma direttamente che cosa vuol dire avere il papà o la mamma uccisi; e quale strazio è la morte che dilania il tuo amico seduto con te in un parco giochi dove scoppia una bomba. Quali sono i sentimenti che finiscono per rimanere? Che adulti saranno questi bambini con i quali dovranno fare i conti anche i nostri ragazzi? Quanti riusciranno a pensare, come ha detto un ragazzo di quelli, che la sua miglior vendetta non sarà uccidere chi gli ha tolto i genitori, ma “trarre il meglio dalla mia vita: questa è la miglior vendetta”?
Stanno al centro sempre, anche quando il loro posto sarebbe di stare all’inizio: di un viaggio, di una scoperta. Stanno al centro: che è il motivo migliore per liberarsi di loro, quando nascono e quando crescono. Quando nascono, se sono sentiti come qualcosa di sporco che non appartiene; e quando crescono, perché chiedono una fatica che non ha più ragionevoli tempi per essere sostenuta, occupati come si è fuori casa. Resta l’imperativo che diventino adulti alla svelta: lo diventino ovunque, e innanzitutto nella sessualità, in quel connubio tra corpo e anima a cui si toglie ogni pudore, così che ciascuno s’affranchi da sé. Solo quella grossa balia senza alcun confine che è la televisione ad accompagnare le scoperte: a dare risposte prima ancora che si formulino domande, e a non aver voce per rispondere alle domande vere.
Stracciarsi le vesti per un bambino violentato, oscenamente fotografato, cinicamente passato da un cliente all’altro? O per un figlio buttato? Con quale diritto – con quale faccia di bronzo – se tutta la nostra sottesa filosofia, e tutta la nostra sfacciata pedagogia, e tutto il nostro liberismo offrono con una mano quello che poi ipocritamente tolgono con l’altra? A badare bene i bambini non stanno davvero al centro: al centro ci sta quella grossa balia a dividerli dagli adulti, e a farli diventare tra loro nemici. Dalle mie parti – c’è un grande fiume – si avverte di non togliere le barriere al ponte se non si vuol piangere per qualcuno che poi ci casca.
Però, a ben pensarci, perché far diventare un presepe lo specchio del mondo? Una nitida mangiatoia resta una speranza a cui non rinunciare; e un po’ di paglia il simbolo della ricchezza che scalda perché accoglie. Non è forse vero che ci sono ancora discepoli di Betlemme?
Attilio Bianchi