Primavera della Chiesa fu detto il Concilio. E come ogni stagione di quel nome, portava con sé le immagini di uno sbocciare: foglioline tremule sui rami accarezzati dalla brezza tiepida, terra bucata da sotto per il frumento che occhieggiava sul mondo, e mistura di colori e profumi portati dal vento ad annunciare la sinfonica diversità dei frutti. Stagione breve, quasi a preparare quelle primavere meteorologiche che stiamo vivendo da alcuni anni. Un tempo trapassato all’indietro, all’inverno, secondo letture pessimistiche
che avrebbero nutrito dissidenze e rancori; un tempo, a sentir loro, che non si sarebbe disteso sulla stagione dei frutti se non per soffrire aridità. E perché s’era arato troppo, o troppo poco; o perché si era seminato su poderi bastardi; o, ancora, perché non si era badato al vento che portava gramigna. C’è bastato poco a dargli ragione per quel che riguarda la nostra chiesa: molto sessantotto non digerito, un po’ di guerriglia alla Camilo Torres, e un individualismo diventato inespugnabile persino nei conventi. A specchio di quanto succedeva intorno: festa di esaltate barricate, terrorismo di giovani senza umiltà, e libertà senza responsabilità.
Su una parte e sull’altra si sarebbe dovuto registrare il disagio, anche se con segni diversi: ma il bersaglio – per una difesa atterrita? o per strabismo secolare? – fu unico per molti anni. A frenare chi per inoltrarsi nei testi conciliari qualche volta incespicava; e invece a non pungolare chi si sarebbe avvolto nei manipoli liturgici finalmente decaduti, a secoli di distanza dal loro uso anti-fetore dell’epoca di Versailles. Esagerando per chiarezza.
Ma il pessimismo è evangelico? Naturalmente no, come non lo è l’ottimismo. In tante primavere ci stanno i passaggi della tempesta: ma non tutti i peschi perdono i fiori. Ogni primavera conosce o troppa pioggia o troppa siccità; ma non tutto il vigneto si affloscia. Tutte le primavere vengono dagli appropriati mesi di gestazione che l’inverno contempla: un bimbo non si fa dal nulla, e si fa senza fretta. Esattamente il contrario di quanto è accaduto nell’ultimo quarto del secolo appena passato. Il consumismo è diventato la misura dell’esistere, tra le mura degli ipermercati e nella cinta delle chiese. Un consumismo di possesso senza godimento da una parte, e da un consumismo di novità scenografiche dall’altro. E, su questa china, l’accelerazione geometrica senza il rimbalzo di una risalita frenante ha sicuramente poco giovato. Tutto- in fretta- e subito- è slogan approdato dagli anni settanta a questi giorni. La fatica del raccogliersi a ponderare è stata sostituita per un verso dall’esagerazione di nuovi stili di vita inevitabilmente sempre più pacchiani; dall’altro da un’enfasi enciclopedica del sapere di fede che ha mortificato la semplicità evangelica. Non si è dato tempo ai fiori di diventare foglie: e qualcuno si è perso per strada, per la promessa mancata a questo momento della storia: come se questa fosse la storia giunta al termine. È mancata la pazienza del seminatore che esce la notte a spiare il miracolo che si è servito di lui, ma che si compie ben oltre lui. Una certa tentazione dell’efficienza, un avere credito nella bolgia della politica, la frenesia inquieta di chi vuol giustificare il senso della propria presenza: questo e altro ha indotto alcuni a perdere di vista l’essenziale. Che è nascosto agli occhi, come si dice nel Piccolo principe: ma sta pure nel vangelo, in altra versione.
Dalla primavera del Concilio è nata una Chiesa nuova, checché ne dicano le chiese pur dolorosamente svuotate. La Chiesa di chi non si è lasciato sedurre dal massimalismo dello scegliere una parte contro l’altra: tra il privilegiare i lontani o il preferire i vicini – quasi in esclusiva – si è stabilita sulla soglia, come si è lasciata insegnare dalla parabola del Padre che si prepara all’Abbraccio. Ma soprattutto è nata la Chiesa di chi, aspettando primavera, non si lascia tentare dalla libidine del successo in questo mondo. Una Chiesa che si sa e si dice provvisoria; e dunque, nella sua funzionalità alla meta che è il Regno, accetta di lasciarsi estenuare dal vigore dello Spirito che la chiama sempre a qualcos’altro da sé. Una Chiesa che si riconosce nella varietà dei doni e dei servizi, e non si sente minacciata nell’ unità da null’altro che non sia la sua stessa ipertrofia. Dunque una Chiesa che ha creduto al rifiorire sul ceppo stanco. E ha imparato che la sua stagione propria è quella di vivere, in questo mondo, nella fiduciosa attesa che gli sia data continuamente primavera: il germe che rinasce da un seme sepolto nella terra. Perché la stagione dei cristiani nuovi è la Pasqua, è il Risorto.