Nelle vigilie di questo Natale, ci si può risvegliare con un senso d’angoscia. E con un acuto senso del limite. Qui, da questa parte del mondo, i cristiani sono alle prese con un rifacimento del loro look: una parrocchia che diventi finalmente missionaria, movimenti che s’incontrino con associazioni, gruppi che riscoprano un loro federalismo ecclesiale. Oltre ai soliti preparativi perché la nascita del Salvatore trovi le chiese parate a presepi, e alle ninne nanne che fanno tanto buono. Dall’altra parte del mondo la storia viaggia su binari diversi:
bambini che muoiono ogni giorno di fame, ragazzi scolarizzati a imbracciare mitragliatori in eserciti sanguinari, chiese distrutte e cristiani inseguiti dal machete, povera gente che si trova una guerra in casa. Mi addentro, lo vedo, in terreno minato, se m’interrogo su che cosa ne è di millenni di buddismo, di confucianesimo, di islamismo, di cristianesimo, di ebraismo. Forse Abele è morto senza figli, e noi siamo tutti della stirpe di Caino? C’è indubbiamente l’ottimismo dei forti e dei puri, che dissuade da un nichilismo deflagrante. Ma dalla gratuita strage di Beslan in poi – nel mirino gli innocenti sbattuti sulle rocce perché i nemici non abbiano futuro – non si può disgiungere più l’incarnazione del Figlio dalla strage di Erode. Due tempi in uno della grande rappresentazione del male: venuto per redimere, e subito cacciato passando sul corpo di bimbi e tra le grida di madri che echeggiano di secolo in secolo la voce che “si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più”. Noi stiamo in un tempo nel quale ci facciamo consolare facilmente: forse perché viviamo in una disperazione altrimenti insopportabile? In Necessità e benedizione della preghiera, un testo di quarant’anni fa, K. Rahner descriveva così il suo tempo, con una profezia sul nostro che mi pare compiuta: “C’è una forma di disperazione ben più orribile: in questo caso essa è diventata uno stato così normale, una cosa tanto evidente, che non si crede più alla possibilità di un altro stato, che si è venuti in chiaro di tutte quelle che si chiamano le illusioni della vita, di ciò che un po’ meravigliati, un po’ amareggiati si deride come fantasticherie fanciullesche. Gli uomini di questa disperazione cronica rimangono padroni di sé, normalissimi e conformi alla vita quotidiana. Si comportano come ogni persona ragionevole: compiono il loro dovere, lavorano, si sposano, pagano tasse, s’interessano di arte e di scienza ed ascoltano, e qualche volta dicono, anche qualche parola sul significato e la grandezza della vita umana”. Insistere sul non volersi far consolare, dunque, può far capire che non di una ripassata superficiale hanno bisogno le nostre chiese; né di un riposizionamento di immagine. Ma di assumere i termini della attuale disperazione della normalità: normale la bellezza del nascere come l’inevitabilità degli ammazzamenti. Normale perdersi in abbracci senza propositi, e in uno sprofondamento nell’ineleganza del vivere.
Chi disgiungesse i due atti dell’unica rappresentazione del mondo, confidando nel canto degli angeli o della visita dei magi – spiritualismo da una parte e riconoscimento dei potenti dall’altra – non assumerebbe il dramma per il quale vale la pena, da questa parte del mondo, di chiamarsi a una vita cristiana rinnovata. Che è poi il nucleo di quanto i vescovi italiani finalmente chiedono. Lasciarsi mandare in nome di Cristo, certo. Ma che vuol dire missione? Partire verso dove? Con quale bagaglio? Non a caso, credo, da un po’ di tempo, ci si richiama alla categoria dello stupore. Che è l’atteggiamento dei pastori che tornano via dalla luce che si è loro mostrata. Stupiti, non necessariamente convinti; interrogati nel profondo, e non soddisfatti da una immediatezza. E dunque aperti a quello che avviene. Non dice il vangelo se e come hanno maturato in riconoscenza ciò che è stato loro dato. Ma nel tornare alle solite greggi, e alle gelide notti stellate, non possono non aver essi, prima dei due di Emmaus, sentito il cuore caldo per quell’incontro velato dalla carne di un neonato. Prima di ogni cosa, prima di qualsiasi adattamento – e dunque prima di ogni ricomposizione di schemi liturgici, catechistici, ecclesiali – occorre sentire la povertà del cuore. Per annunciare alla povertà del mondo la necessità di Colui che salva dall’odierna disperazione di un’ordinarietà senza sbocchi. È Natale. Quello che a noi sembra disperatamente impossibile, è già avvenuto.