A fronte di problemi in emergenza continua, le risposte di questi ultimi decenni hanno ritardato molto. Troppo. I bisogni che venivano dichiarati – anche attraverso quell’estremo metodo che è il rifiuto, l’allontanamento – venivano liquidati e nelle comunità parrocchiali e nella più responsabile comunità della Chiesa in Italia, come opera di una scristianizzazione che era opera del demonio. Pochissimi si sono lasciati fermare in un’analisi che assolveva le pigrizie, enfatizzava i piccoli successi,

nascondeva le bugie. La plateale inosservanza di comportamenti di etica cristiana, lo svuotamento progressivo delle chiese, la richiesta di sacramenti senza la distinta connotazione della fede, sono le tappe di un cammino dentro cui si è stritolata a poco a poco l’appartenenza sostanziale. È rimasta una appartenenza formale, da religione civile, appoggiandosi alla quale si è rimandata la coscienza di una presenza al mondo da riformulare. È così che sono nate, nei pensieri e nei gesti, quelle forme alternative che si sono concretizzate per alcuni in una sorta di panteismo indifferenziato, per altri nell’assunzione di ritualità che – con un termine esso stesso vago – si è chiamata new age. Ritualità di pensiero che in molti convivono con le pratiche cristiane, sino a che non entrano in conflitto: e allora, regolarmente perde la prassi cristiana.

 

Il limite della Comunità

Innanzitutto una buona pastorale si lascia guidare da alcuni principi-guida che pur partecipando pienamente della dottrina cattolica non sono stati seguiti, per il passato, da atti conseguenti: “Dio attraverso vie a lui note, può condurre gli uomini alla fede”. Le vie a Lui note sono diventate sempre le vie a noi note, in una coincidenza che ha spesso, se non esplicitamente predicato, certo fatto pensare a una coincidenza pedissequa della Chiesa con il Regno. È la via del limite, senza la quale ci si fa padroni dei misteri che sono dati in amministrazione. E dunque ci si fa padroni, e non guide, delle coscienze; e ci si fa imprese rette da ordinamenti, e non affidate allo Spirito. Le sordità dei pastori nelle risposte agli uomini del nostro tempo che così inevitabilmente nascono, sono giustificate accusando di cattive voglie coloro che trovano difficoltà nei percorsi obbligati che si tracciano nelle comunità cristiane. Accompagnare il discernimento spirituale è accettare che non tutte le nostre pratiche esauriscono le attese. E nella ribadita centralità della parrocchia – che anche esce dagli Orientamenti dei Vescovi per il prossimo decennio – non ci si deve nascondere per non lasciar spazio ad altri modi di incontrare il Signore, proposti da gruppi, o movimenti, o semplicemente richiesti nel rinnovato cammino di una comunità parrocchiale. Il senso del limite religioso fonda l’ecumenismo, e il dialogo con coloro che hanno altre specole per guardare a Dio; ma prima ancora fonda il rispetto tra gli stessi credenti in Gesù. Il senso del limite è all’inizio della propria umile esperienza dei doni di rivelazione di Dio. Un buon accompagnamento spirituale, a mio modo di vedere, si nutre continuamente della virtù della provvisorietà: non definendo Dio una volta per sempre, non definisce mai una volta per sempre le vie per incontrarsi con Lui, e in Lui, con il mondo. Forse è il momento di uscire da quelle ambiguità che stanno ancora nutrendo le prassi ecclesiali: il coraggio di dire superata una pedagogia della fede che separa il corpo dall’anima, la razionalità dall’affettività. Riconoscere il proprio senso del limite come Chiesa è non temere di dire superate certe forme storiche di intendere la vita, e la vita che discende dall’adesione di fede; e riconoscere alla persona che è chiamata a produrre l’atto di fede la propria indiscutibile originalità. Se queste cose non si fanno girare in una Comunità, il distacco avviene senza lacerazioni – ma per un dileguamento ancor più drammatico.

 

Il bisogno del sacro

L’allontanamento dalle istituzioni- e dalla Chiesa cattolica – è un fatto indubbio. Ma regge fortemente la richiesta di sacro, tanto da precipitare non tanto in altre religioni (l’Enciclopedia delle Religioni da poco uscita in Italia sta lì a dire che non si dà concorrenza vera al Cattolicesimo), quanto invece nelle forme di superstizione e magia che indicano un bisogno di credere a qualcosa comunque. Si vive in una terra senza regole, un modo di sentire che richiama la voglia di pace e di felicità che la cosiddetta new-age interpreta come collante di idee tra loro anche opposte. La fase di stanca che un simile movimento sta passando si può spiegare con la difficoltà di supportare a lungo un ottimismo affidato alla precarietà di una salvezza senza Salvatore, senza un Salvatore che viene da fuori. Non per nulla si spiega l’orientamento politico degli aderenti a questo movimento di vita: si stabiliscono là dove qualcuno promette certezze e sicurezze che blandiscono l’onnipotenza dell’io che si fa da sé; ma che finisce per non trovare in sé tutte le ragioni della resistenza al quotidiano. I percorsi di autoanalisi, i ritiri in luoghi bucolici, gli “week-end spirituali” per professionisti stressati, stanno ad indicare ricette utili per la “terapia del dolore”, ma inutili per la cura del male di vivere senza la speranza che conduce oltre. Lo scavalcamento che new-age tenta di fare del dolore e del male del mondo, cercando di negarlo, è invece dai cristiani assunto per il superamento: servendo così la verità della vita, rende inaccettabili le illusioni di un mondo descritto secondo la menzogna di un presente senza futuro. È la stessa provvisorietà della croce se la si intende nel mistero di resurrezione. Ma una provvisorietà che cura la persona nelle sue debolezze, nei suoi ritardi, nelle sue aspirazioni.

Un iter praticabile

Che può fare una comunità cristiana, per ridiventare la terra ferma di coloro che cercano senza trovare? Credo che tutti gli atti di religione proposti si debbano nutrire fortemente di una determinazione all’atto di fede. Che abbia tuttavia e ormai la caratteristica di un atto di tutta la persona: che non si trovi divisa in se stessa tra corpo e anima, tra affetto e razionalità, tra definizioni dottrinali e vissuto quotidiano. Ad esempio, la scoperta della paternità di Dio è un indubbio risultato della nuova catechesi post-conciliare: un dato che ha certamente forgiato molti giovani in un rapporto diretto con questa paternità, che – nel caso della confessione dei peccati – non si stabilisce tanto come un rifiuto della mediazione della chiesa, quanto come un modo in più per leggere i propri atti di coscienza, senza passare solo attraverso lo specifico sacramento. Che poi era già negli insegnamenti (“fai il tuo atto di pentimento”) ma svuotato dall’incombere di sapore giudicante del confessore dietro la grata. Un sacramento che perde il suo segno di accoglienza, si svuota anche per l’attesa razionale. E allora il rifiuto che ne nasce è conseguenza, e non causa, di una dismissione dell’appartenenza cristiana.

Il silenzio è una metodica religiosa poco esplicitata per i tanti che non appartengono ai ceti privilegiati degli impegnati, o di chi è chiamato a una vocazione cristiana speciale. È poco esplicitata nelle liturgie, e quasi del tutto ignorata in quel “chiamar fuori, in disparte” che pure è così forte nel vissuto stesso del Vangelo.

Ma anche la pedagogia della bellezza diventa per il nostro tempo il necessario accompagnamento della ricerca spirituale. Il simbolo è il linguaggio che, unico, riesce a dire tutto con un tocco, che istruisce senza didascalismi, che introduce al mistero senza informazioni. Forse per questo occorre badare ad avvolgere con calore coloro che entrano nelle nostre chiese, invitandoli a non lasciar fuori il loro corpo, ma a farlo vivere dentro i segni liturgici: che è poi l’unico modo per uscire da sé finalmente verso il Salvatore che conduce a riconoscere il Creatore provvidente della vita.