Pagine come queste sono sempre difficili da stendere. E non solo per una certa ipocrisia – chiamata discrezione, ma parente della pigrizia spirituale – che ci fa sottacere le difficoltà, e nascondere le tensioni nella Chiesa. Difficili perché le ragioni degli uni e degli altri – e sono tante per ciascun pensiero – non sempre sono affrontate con spirito sereno. I movimenti nascono in opposizione. Un’opposizione che è degli aderenti, ma forse più dei dirimpettai: per i primi, perché ogni creatura appena nata chiede di essere difesa nella sua debolezza anche contro

 chi solamente si presume come attentatore – e dunque si mettono regole di appartenenza che di fatto escludono; sia perché chi si vede contrapporre un modo nuovo di professare la fede in Gesù si sente attaccato nella stima di sé, che declina subito come un attacco alla unità ecclesiale, descritta con il proprio modo di professare.

Dopo una lunga stagione di dibattiti e di animati confronti, con accuse di settarismo e di immobilismo – e sono parole gentili per esprimere lotte che si sono qua e là manifestate con pesantezze che hanno alimentato anche i titoli di giornali laici – si è arrivati a un apparente armistizio, che sembra aver lasciato ciascuno sul proprio cocuzzolo: una quiete che non è assenza di contrapposizioni.

I movimenti che conosciamo nel nostro tempo non sono fenomeni inediti. Da sempre la Chiesa li ha conosciuti, e con fortune alterne: una presenza che continua nell’oggi se si è accettato di istituzionalizzarsi; o sono spariti, se si è preferita l’inscalfibilità del carisma piuttosto che sentirsi forzati dentro le categorie precise di uno status canonico. Ci sono voluti duecento anni perché il carisma di Francesco d’Assisi si normalizzasse in un Ordine, anche se da subito (lui ancora vivente) sono emerse le differenze tra chi voleva la libertà sul territorio e chi voleva un territorio per restare libero. Nascono in tempi di indubbia debolezza, nei passaggi epocali quando il nuovo è mal sopportato dal carrozzone che porta con sé necessari equipaggiamenti e inutili fardelli. I movimenti nascono dandosi il compito di un ritorno alle origini: su traiettorie diverse, con sensibilità e accentuazioni diverse, contestano il clero delle parrocchie – forse più nel passato che nel presente – e lo fanno a partire dalle città, per rifugiarsi poi nella discrezione più ampia delle periferie. Non per nulla si insediano più facilmente, oggi non diversamente da ieri se non per la diversità della geografia storica, là dove più difficile è la socializzazione: ai limiti delle metropoli, o in territori più marcati dal paganesimo di ritorno, o là dove sono richieste dighe più robuste all’incalzare delle sette o alla riduzione della fede cristiana a un vago religiosismo sincretico.

 

Alcune risposte

Questo dossier intende percorrere alcune piste per dare qualche risposta, per dire quanto si può imparare dalla lunga storia dei movimenti nella Chiesa. Intanto, accentuando da dove nasce l’indubbia legittimità dei movimenti nella Chiesa; poi – pur nella diversità delle modalità – quale è il denominatore comune che è possibile riscontrare nei vari gruppi, rispetto all’esercizio dell’autorità, e alla collocazione nella Chiesa locale. Uno dei casi difficili è lo scavalcamento, che a volte è avvenuto, del vescovo locale per richiamarsi alla simpatia dell’autorità papale: in un contesto storico, quello prima del mille, che vedeva una Chiesa poco episcopalizzata, la cosa era più comprensibile di quanto non lo potrebbe essere ora. L’autorità del fondatore, che si fa abitualmente risalire allo Spirito “che soffia dove e come vuole” (espressione che si presta facilmente ad essere integrata così: “purché soffi dalla mia parte”), quali limiti si dà, se non si lascia scrutinare dall’unità che il vescovo locale presiede? Dall’altra parte, una Chiesa locale, innanzi tutto una parrocchia, che non si lasciasse interrogare su una indebolita e un po’ sclerotizzata pratica della fede, da cui parte il bisogno di altre forme di incontrare il Signore, esprimerebbe una ecclesiologia autoreferenziale, come se potesse riassumere in sé tutte le vie di salvezza.

 

Alcune domande

Ma questo dossier anche apre ad alcune domande, che nella realtà ecclesiale di ciascuna comunità possono trovare risposte buone. È possibile ad una parrocchia – che per statuto ha di occuparsi del passo di tutti, forti e deboli – far convivere più soggetti pastorali? con propri cammini, con proprie catechesi, talvolta addirittura con due altari pasquali? O è inevitabile che i movimenti finiscano per scandire il passo di tutti? È possibile nella realtà di una parrocchia accettare la tensione, rispettosa e adulta, che soggetti diversi inevitabilmente comportano? La situazione attuale sembra confermare quanto si è detto all’inizio: le periferie delle grandi città trovano nelle parrocchie movimentiste una risposta al bisogno di nuova evangelizzazione. Il sud del nostro paese, che rispecchia la propria fluidità culturale nei progetti pastorali, è più aperto ai movimenti; nella pastorale del nord si sente più pesante l’istituzione, ancora sorretta da un buon numero di ordinazioni presbiterali. Dunque i vuoti ministeriali chiamano qualcuno comunque, come è avvenuto per alcune diocesi del centro-sud, dove l’immigrazione di preti dall’est europeo, e l’insediamento di missionari dei movimenti, hanno fatto respirare territori abbandonati. Ma può essere sub-appaltata – nei loro cammini o nelle loro scuole cattoliche – l’iniziazione cristiana ai movimenti che di fatto attirano o respingono, e dunque non possono offrirsi davvero a tutti quelli che vivono sul territorio?

 

L’unità non è uniformità

Più propriamente, dunque, il titolo di questo dossier, più che chiesa e movimenti – come lo si è pensato in un primo tempo – si legge come parrocchia e movimenti: come si è accennato, e come si vedrà meglio nelle pagine che seguono, i movimenti sono chiesa. È dunque, quello che ci sta davanti, più un problema di pastorale che di ecclesiologia: anche se, come ha avvertito Christifideles laici (al n. 30) i movimenti debbono confrontarsi con i criteri di ecclesialità. Il che non è un tentativo di normalizzare, o di ricondurre dentro l’omogeneità, ma un aiuto a non collegare la propria formazione alla fede a un’utopia che oscuri la verità di un Regno non ancora qui. Penso ci possa guidare la parola di un Maestro: “Chiedo perdono ai gruppi, alle associazioni, ai movimenti che si fossero sentiti poco valorizzati da me. Ho sempre goduto di fronte a testimonianze autentiche di Vangelo vissuto, dovunque si trovassero, ma ho avuto anche difficoltà nel comprendere alcune logiche che mi sembravano particolaristiche e autoreferenziali. Ho sognato che parrocchie e movimenti potessero unire le energie, riconoscendo ciascuno i propri doni e uscendo dai particolarismi, ma il cammino appare ancora lungo. Come vescovo ho sentito un’istintiva preferenza per la centralità della pastorale diocesana e parrocchiale. L’onestà dell’intenzione non basta certo a soddisfare chi ritenesse di essere stato poco curato ed amato: per questo chiedo perdono, e affido alla misericordia di Dio la maturazione dei semi di bene lanciati nel dialogo che mi pare di avere sempre cercato” (card. Martini, Sulla tua Parola, 2001).

È bella quella istintiva preferenza: non c’è l’assolutezza del ruolo a sostenere il proprio servizio di autorità nell’indicare una pastorale. La strada da fare è lunga per uscire dai particolarismi. Il punto di partenza però è indilazionabile e chiaro nella formulazione del metodo del dialogo: si tratta di voler davvero ascoltare l’altro, mentre gli chiedo che cosa vuole. Che cosa vuole quel movimento dalla parrocchia, che cosa la mia parrocchia da quel movimento.