Di opere buone è piena la storia della Chiesa, e abbastanza pieni i giorni dei discepoli, soprattutto in alcuni periodi dell’anno, e in alcuni tempi della vita. Ma che le opere buone discendano sempre dalla fonte del Maestro, questo non si può affermare. L’elemosina per placare la coscienza è uno dei rimproveri che reciprocamente ci si dà quando si vuol essere buoni perché richiesti dalle circostanze; così come il pensare – e il lasciar pensare – che il cristianesimo sia essenzialmente la religione dell’amore del prossimo,
è fuorviante. Non che non sia anche così; ma a discendere da ben altro: l’amore che ci è stato comandato ha il suo paradigma assoluto per un cristiano nell’Eucarestia, la memoria di colui che ha mostrato fino alla morte la sua dedizione. È il segno straordinario dell’amore di Dio per gli uomini, che può muoverci – non sporadicamente, non occasionalmente – verso il prossimo, e i suoi bisogni più radicali. Come si può infatti definire opera di misericordia – volto del Padre rivolto ai poveri attraverso sé – la buona azione che si compie, se non accostandola all’azione celebrata della morte e resurrezione del Signore?
Da Matteo 26 a Giovanni 12
La sezione che in Matteo prende il via dal capitolo 26 introduce al vangelo della passione e resurrezione del Signore, e si apre con una donna senza nome che da un vaso d’alabastro versa sul capo di Gesù il prezioso profumo: essa compie un’azione incomprensibile per chi non ha la fede nel cuore, uno spreco. Con il suo capitolo 12, Giovanni opera un’inclusione, ma che è essa stessa un’introduzione alla grande ora, quella della morte salvifica: seppure in altro contesto, e con modalità diverse, identifica in Maria di Betania la donna senza nome di Matteo. Il richiamo all’Eucarestia in questi brani non è solo in filigrana. C’è il far memoria che rende presente: un preannuncio di ciò che avverrà di lì a pochi giorni, nei due fatti citati; il memoriale della redenzione del Cristo ormai risorto e vivo, per i discepoli dopo la pentecoste. Ed è in quella presenza, allora come adesso, che si trova il fondamento della fede che opera: i discepoli non hanno altro da imparare di quanto gli inizi del vangelo della morte di Gesù insegnano. Dai corrispettivi brani di Giovanni e Matteo si può chiaramente evincere quanto eminente fosse, nella fede primitiva dei discepoli, questo richiamo alla sepoltura di Gesù come luogo teologico di ogni carità: quest’assoluto della carità per il corpo del Signore previene qualsiasi atto d’amore umano, e lo presiede. L’attenzione per il suo corpo sepolto, prima e dopo, è uno spreco che gli Evangelisti sottolineano perché fosse chiaro il nucleo della fede, e delle opere che ne discendono.
I poveri sempre con voi
Che i discepoli nel loro insieme si sdegnino è detto da Matteo, e può impensierire se non sapessimo che il tempo della luce per loro ancora non era arrivato. Che non importi molto dei poveri all’apostolo mal riuscito è una sottolineatura di Giovanni che con Giuda avrà sempre un conto aperto (chi, come Giovanni, ha vissuto l’intimità con il Maestro, il tradimento lo sente bruciante più degli altri). L’azione di quella donna provoca una risposta di Gesù che, se ammutolisce i circostanti, ha fatto nei secoli arricciare le penne di molti esegeti pauperisti, impauriti da un allargamento della prospettiva. Da un discorso che dice delle conseguenze che la fede opera nella vita dei credenti (Mt 25) si arriva alla sottolineatura sui poveri “che rimangono sempre con noi”: frase che, senza tanti distinguo, esige precedenza per ciò che compete e conta. È parola che non può sottrarci all’ascolto di quanto per la fede è autentico. E si badi che essa viene immediatamente dopo l’altra risposta alla domanda dei discepoli che volevano sapere quando sarebbe cominciato il giudizio: “Accadrà quando mi avrete riconosciuto nel più piccolo degli uomini, con i piccoli segni dell’agire umano, il mangiare il bere ed il vestire”. Un capovolgimento di fronte solo per chi legge il vangelo a pezzettini: Gesù dice che è capace delle piccole attenzioni per il prossimo solo chi s’addestra alla grande azione di attenzione per Lui. Non è forse il suo corpo il luogo dell’amore di Dio? E non è nel corpo eucaristico lo spazio di coloro che si avvicinano gli uni agli altri per essere sinceramente gli uni per gli altri? E dunque il giudizio comincia dal riconoscimento di Lui che si consegna alla morte, alla grande inutilità che in Lui deve essere riconosciuta.
Lo spreco e l’inutilità
Nei discepoli costernati, e nello scandalo del grande scandalizzatore che Giuda fu (per quanto si abbia compassione di lui, in questi brani esce una piccineria nei confronti di Gesù, che avverte anzitempo della china disperata della sua vita) si coglie quanto possa essere incomprensibile l’inutilità di certe azioni per i duri di cuore, per coloro che, anche nella fede, percorrono le strade dell’utilità, del risultato visto o presunto, del bene che si fa visibile o non è. La preghiera dei grandi santi, che precede ogni loro chinarsi sui poveri, dai duri di cuore è visto come una sottrazione: sottrazione di tempo e di energie. E inutile è da loro considerato il compito delle monache di clausura, donne di resurrezione che curano ancora oggi, esse stesse nel giardino di sepoltura, il corpo del Signore a vantaggio di tutti. E uno spreco la gratuità che il femminile sa chiamare sulla terra. Il modo di Maria di Betania ( o comunque si chiamasse e fosse) di mostrare la sua fede e il suo amore è un atto rivoluzionario: fa ciò che nessuno s’aspetta, fa oltre ciò che è sopportabile dagli uomini del suo tempo. Se la gratuità non è l’impensabile, inevitabilmente si nutre degli strumenti di competitività che gli uomini trovano utili per sé. Il grado di inutilità e di spreco che sta in un’azione la qualifica come gratuita: se alle donne nel vangelo sembra che sia riservata questa vocazione di gratuità, tuttavia nessun discepolo può sottrarsi a questo dono e a questa ricchezza. I duri di cuore non sono necessariamente farisei o scribi – dunque con una lettura della vita comprensibilmente diversa; sono anche i discepoli del Nazareno, che non apprezzano se non ciò che vale: ma quanto s’allontanano dal Calvario nel momento in cui si compie l’apparente mistero di inutilità del Messia? E quanto restano lontani, nell’assemblea eucaristica, dalla lode per Colui che si dà, tutto e del tutto, anche a quelli suoi che non lo riconoscono?
L’azione bella
Il riconoscimento di Gesù per quello spreco (corrispondente a una cifra da capogiro, lo stipendio annuale di un bracciante agricolo) sta in parole dall’eco stupenda per tutti i secoli: “Essa ha compiuto un’azione bella verso di me”. Non un’azione buona, come nella traduzione corrente. Nel testo greco è azione bella. E questo afferma che ci possono essere buone azioni, tutte le azioni di bontà degli uomini; ma solo alcune sono belle: quelle che mostrano fede nel mostrare amore. Questo è l’accudire Dio nel prossimo, che i discepoli sono chiamati a testimoniare, non altre dispersive e defatiganti presenze. Un’azione senza ritorni, uno spreco di sé e della propria ricchezza, la stessa della donna senza nome in casa di Simone il fariseo che irrora di profumo prezioso un corpo destinato alla morte. Ma la bellezza di questo gesto è proprio e tutta nella sua apparente inutilità. Non chiama forse la bellezza fuori dall’utile, alla totalità che nutre di contemplazione ogni uomo, anche il più distratto? Alla totalità che, oltre che di carità, si nutre di fede e di speranza? Non per nulla è Maria di Betania che Giovanni incarica di riempire con quel profumo di nardo ogni perché dell’amore. È a una donna contemplativa, a una donna che accoglie profondamente il Maestro, che è chiesto di farci accorgere della compassione che supera l’impellenza dei bisogni: per essere meno poveri davanti a Lui, per essere più ricchi per i poveri che ci mette davanti.