Sui termini – direzione o guida o accompagnamento o paternità nel cammino spirituale – trovate in altre pagine le utili chiarificazioni. È certo tuttavia che la sostanza del tema riporta, per esperienza secolare, a una descrizione decisamente personalistica, a un rapporto a due che, tolta la parentesi dei monaci del deserto, ha sempre visto un ministro ordinato come conduttore. E allora sembra utile incominciare queste riflessioni con una domanda provocatoria: la direzione spirituale è davvero per tutti?
Tutti ne hanno bisogno allo stesso modo, tutti ne possono allo stesso modo usufruire? Vi sono alcuni principi di psicologia religiosa, ma non solo, che pongono l’accento della maturazione nella necessità della reciprocità: nessuno diventa grande senza uno scambio. Se di questo oggi se ne può avvalere senz’altro un prete, che un qualche cammino spirituale è chiamato a fare con qualcuno, non vale per la stragrande maggioranza dei battezzati: che uno scambio non ritengono di cercare, o che non trovano un prete pur cercandolo. I due corni del dilemma sono presenti nelle comunità cristiane. Ed ambedue chiedono una attenzione propria.
Chi non cerca non trova?
Non mi dilungo sulla acriticità con cui, giovani o meno giovani, si accoglie oggigiorno qualsiasi condizionamento sociale: sembra una legge del contrappasso, rispetto all’affanno con cui si cerca di declinare la propria libertà. Per risvolto c’è un rifiuto a confrontare la sfera della fede, pubblica e privata, con qualcun altro al di fuori di sé. Non se ne sente la necessità, e non sempre per malevolenza: mancando la fede del connotato dell’umiltà, ci si sente del tutto sovranamente responsabili della propria vita; mancando del connotato dell’obbedienza, non si mette in pratica il discepolato attraverso una disciplina confrontata. È un atteggiamento molto più diffuso di quanto non ci si voglia convincere: e conduce – non da ora solamente – a quella connotazione religiosa degli atti non sufficientemente illuminata dalla fede; e dunque finisce nel campo minato di chi professa non correttamente, e dunque non correttamente agisce.
Basta una semplice toccata e fuga, che si stabilisce in particolari occasioni della vita, per convincere persone altrimenti lontane da questa pratica a chiedere un accompagnamento spirituale continuativo, forti esse stesse dello stupore per una prospettiva di lettura della vita che si è squarciata improvvisamente. Vale anche per questo particolare ascolto della Parola che è la direzione spirituale la parabola del seme sulle molte terre: fretta, incostanza, facile entusiasmo spengono spesso i molti propositi. Ma una cosa è certa: anche chi ancora non è sensibilizzato lo può essere. Nel momento della prova e nelle svolte di responsabilità – si pensi alla visita per una morte e all’incontro per una nascita o un matrimonio – l’offerta di parole diverse mostra il limite e il bisogno, proprio nella disponibilità affettuosa e disinteressata di un fratello nella fede.
Chi cerca e non trova
L’altro corno del dilemma sta soprattutto nei numeri, almeno finché l’incontro personale è cercato solo con un presbitero. Da parte dei laici si manifesta con osservazioni e timidi rimproveri del tipo: “Perché non avete mai tempo per ascoltarci? Avete sempre così tanto da fare, che non voglio disturbare. Perché avete sempre una così grande mobilità? Uno non fa a tempo a conoscervi, che già siete altrove. Perché per alcuni trovate sempre il tempo, e per altri a fatica e a bocconi?”. Sulla vastità e pesantezza dei compiti dei preti, oggi che si sono numericamente ridotti e generazionalmente invecchiati, non c’è neppure un anticlericale incallito che possa dubitare. Sulla necessità di tutti quei compiti, anche un anticlericale infastidito sa suggerire distinzioni. Per moltissimi preti, e frati, dovrebbe valere la regola del tre: quali sono le tre cose per le quali vale la pena di uscire la sera, e lasciar perdere tutte le altre? La sindrome di intasamento credo tocchi ormai quasi tutti. E chi ci perde è il confronto con la Parola per chi la cerca, e la disposizione all’offerta per chi ne è richiesto.
“Ascoltare è una fatica; dire è una fatica. Stabilire una relazione spirituale è una grossa responsabilità che mi induce alla tentazione di una fuga. Non tutti sono capaci, l’ordinazione non ha infuso il dono della paternità. Non ho pazienza sufficiente. Mi intrigano troppo le difficoltà degli altri, e ne soffro spiritualmente e fisicamente. Alla fin fine mi hanno solo chiesto consulenze psicologiche: e mi sono convinto che tanto valeva non prestarsi”. Più o meno motivatamente i preti così rispondono alle difficoltà dei laici. L’unica chiarezza che può sostenere questo servizio è sapere bene in che consiste la direzione spirituale: non tanto una insistenza sul che cosa fare o non fare – che attiene alla fine alla coscienza delle personali possibilità e della personale luce sulle difficoltà – quanto una verifica dell’obbedienza della fede in Dio Padre, che si serve della parola dei piccoli padri della terra. Per il padre antico Nilo Saraskji, la presenza della Sacra Scrittura tra due fratelli fedeli permette di sostituire la paternità spirituale con la fraternità spirituale: la Scrittura ispirata da Dio è il “maestro che non può sbagliare”, e inserita nella comunione fraterna, permette al fratello di istruire il fratello, all’amico di istruire l’amico. Non una responsabilità assunta per un altro, ma la condivisione di una reciprocità: non può già essere una solida garanzia, una certezza contro le ansietà che simile servizio può far nascere?
Il servizio dei molti fedeli
L’elogio della parzialità, il bene di sentirsi nell’obbedienza che nasce dall’umiltà, e il conforto per un compito che sta soprattutto nel leggere insieme la Parola più che rispondere con dei sì o dei no, non risolve il problema: come chiamare tutti al confronto con una paternità spirituale, se si sa che a tutti non è possibile comunque rispondere? La comunità cristiana tra i suoi compiti dovrebbe mettere questo (facendogli posto col decapitarne almeno una decina d’altri che non sono di necessità: e così seguendo la regola del tre): suscitare una tale stima cristiana per alcuni membri della comunità – non necessariamente preti, e non necessariamente maschi – che essi vengano ricercati non come una guida morale, ma come coloro che fanno ascoltare più compiutamente la chiamata dello Spirito. È la docilità reciproca al discepolato del Maestro che insegna non a dirigere, ma a seguire insieme; ma è anche la miglior prassi comunitaria: sia per resistere alla tendenza “tanto più i preti calano, tanto più accentrano”, così impoverendosi rispetto alle chiamate alte; sia investendo i laici – e in particolare i catechisti – del compito di autentici testimoni della voce del Vangelo per i fratelli di cui godono una stima spirituale.
Ma si può intendere anche qualcosa di più, subito e per tutti quelli che comunque non si riuscirebbe altrimenti a raggiungere in un incontro personale. Una parrocchia, oggi, può programmarsi secondo una direzione spirituale collettiva: può essere un taglio particolare delle predicazioni – ma la stessa intensità celebrativa – dove l’annuncio si fa chiamata, e spesso avvia la prima richiesta di un incontro personale; o può essere una continuità della lectio che mette insieme di fronte alla Parola i componenti di un gruppo, perché poi ciascuno interroghi la propria vita; o, soprattutto per gli incontri dei giovani, la provocazione che tocca la loro vita nelle opzioni su cui stanno fondandosi, magari finalmente mettendo al bando i pur dilettevoli profeti alla Gibran per lasciar posto alla Parola che seduce senza sincretismi e nella fortezza. E questa direzione spirituale collettiva non è da meno di quella che si è sempre intesa: forse oggi è la più battibile, purché sia chiaramente mirata. E non solo perché mancano preti, e non solo perché è ancora lunga la strada per laici stimati, anzi pneumatofori (portatori dello Spirito, com’erano conosciuti ai tempi dei Padri antichi): ma perché si possono creare luoghi dove la sapienza dei molti è a servizio dei molti.