L’anno di compimento del Giubileo è anche l’anno di presenza al mistero della Trinità, mistero “per troppa luce” di Dio. E anche se si devono mettere in conto – più di altre volte – i balbettamenti; anche se – meglio di altre volte – ci si deve guardare dalla pretesa di definizioni, che si servono di concetti e poco della sensibilità del cuore; tuttavia è indispensabile non lasciarsi fermare dalla meraviglia che questa verità contiene per la fede dei cristiani. Kant ha scritto: “Dal dogma della Trinità, preso alla lettera, non si può ricavare
nulla per la pratica”. Si riferiva, il filosofo, a quella formula aritmetica tratta dal catechismo, e avrebbe avuto le sue buone ragioni se non ci fosse anche il discorso di addio di Gesù, nel quale Giovanni l’evangelista ha compendiato l’aspetto più esaltante della rivelazione cristiana: un mistero da vivere più che da conoscere, un’amicizia – l’intimità con Gesù – che introduce alla pienezza della comunione divina.
J. Bracken riassume così: “Il Padre, il Figlio e lo Spirito sono un solo Dio, per il fatto che sono una comunità di tre Persone divine: cioè ognuna di queste Persone presa separatamente non sarebbe Dio. Sono un solo Dio perché le tre Persone sono in relazione dinamica reciproca, in interrelazione l’una con l’altra”. Vivere la Trinità: concretamente che cosa vuol dire? Possiamo forse farci un’idea della sua essenza, della sua vita? Possiamo tentare in mille modi, ma nessuno è adeguato. Ecco perché è necessario che si proceda per analogia partendo da una esperienza acquisita di ciò che significa essere comunità.
Il Dio che parla al plurale
I commenti ebraici e cristiani mettono in rilievo che nel racconto della creazione dell’umanità Dio parla di sé al plurale. “Allora Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. La tradizione ebraica ha interpretato l’inizio della formula come un “plurale deliberativo”: come in altri passi della Scrittura Dio è rappresentato quasi chiedendo consiglio a se stesso (J.Lequerc). A partire dalla rivelazione portata da Gesù si è potuto proiettare su questo testo la conoscenza che già si aveva che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo. D’altra parte la terminologia dell’immagine utilizzata nella Genesi ha conservato il senso forte che ha ancora nella tradizione greca cristiana. L’icona non è soltanto una figura da ammirare, che può commuovere, far pensare, ma dinanzi alla quale si rimane al di fuori; essa rende presente in chi la guarda la realtà che raffigura; realizza un incontro, conferisce un’efficacia, provoca una risposta. Per Dio, fare l’uomo a sua immagine è rendersi presente in lui. Questo doveva realizzarsi nell’uomo Gesù in maniera perfetta e assoluta. Ma questa realtà si trova in germe in ogni persona umana, e si sviluppa quando partecipiamo a ciò che è compiuto in Lui.
L’esperienza ci fa costatare che vi è in noi questa capacità di dono; ma nello stesso tempo ci fa percepire una resistenza a metterla in atto: una tendenza a pensare a noi stessi e a non dare tutto a tutti. Un egoismo che deve essere vinto poiché la sua radice è nel peccato. L’uomo perfetto ha voluto morire per salvarci e liberarci e ci dà lo Spirito che restaura in noi l’immagine originaria di Dio arricchita della nostra partecipazione a Colui che è l’immagine perfetta del Padre.
Il Dio comunione
Una volta ammesso che Dio è uno in tre Persone che si comunicano l’una con l’altra senza confondersi, in che cosa consiste questa loro unità affermata anche dalla tradizione? Se ogni Persona contiene in sé un Dio che è comunità, che si comunica in Dio e fuori di Dio, ogni persona è fatta dunque per la comunione: è orientata verso l’Altro e verso tutti gli altri. Infatti Gesù, che fu la perfetta immagine del Padre, non poteva essere che “un uomo per gli altri”: la sua esistenza era una pro-existentia (un esistere per… , a favore di…). Il suo Spirito mette in noi una capacità di realizzare in pienezza ciò per cui siamo stati creati e ri-creati: esistere per Dio e per tutti; vivere dunque non soltanto con loro, ma per loro. L’uomo è veramente uomo, cioè creatura umana e immagine di Dio, soltanto se si dona.
“L’amore con il quale mi hai amato sia in essi. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi una cosa sola”. Queste parole di Gesù in san Giovanni (17,26 e 21) ognuno dei Tre può dirle a ognuno degli altri due perché essi formano una comunità di amore. Reciprocamente si danno e si ricevono, si contemplano con meraviglia, e con stupore eterno e inestinguibile si amano. Sono la gioia gli uni degli altri: e quando uno di loro, che ha elevato al loro livello la condizione umana, soffre, come pensare che l’amore dei due altri resti impassibile? E’ incredibilmente meraviglioso, ma vero: lo stesso amore scambievole del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo è in noi. Siamo uno, con loro, tra noi, come essi sono uno della stessa unità che è comunità. Sappiamo dall’esempio e dall’insegnamento di Gesù in che cosa consista, vitalmente, essere sempre movimento: verso di loro e verso tutti gli uomini. Nel discorso dell’addio riferito da san Giovanni, Gesù prega il Padre – gli parla, scambia con lui il suo amore – dapprima per il gruppo dei suoi discepoli, poi per coloro che crederanno alla loro parola – che è la Sua – poi per il “mondo”, composto da tutti gli uomini che hanno in sé l’immagine dello scambio che devono realizzare con i Tre e fra tutti loro.
Da ogni parte nella Trinità
Un anno dedicato alla Trinità, nel complesso di ciò che un Giubileo rettamente inteso significa (a questo riguardo rimandiamo agli editoriali di tutto quest’anno, che sono voluti essere un cadenzato avvicinamento) non può dunque che partire da alcune parole-chiavi. Una cosa è certa, come una felicissima espressione di sant’Agostino recita: che da ogni parte la Chiesa è convocata nella Trinità (undique in Trinitate). Da ogni angolo, da ogni situazione, e sempre. Non è indifferente questa natura di Dio per i cristiani. Perché diventa porto e navigazione, motivo e speranza. Ma anche atteggiamento corretto.
— Un anno di silenzio. Se una cosa si impara subito dal mistero della Trinità è che il gran daffare del credere (che si veste di opere) può oscurare l’unica ricchezza che c’è: che è quella che ci è data, e non certo quella che produciamo. Una comunità cristiana nell’anno del Giubileo dovrebbe riscoprire la contemplazione come fondante del proprio credere e sperare: un’intimità ricercata, azione continua, nutrita di silenzio. Un diverso modo, anche in catechesi, di “conoscere” Dio – meno discorsivo, più nutrito di stupore – potrebbe condurre poi alla centralità del “celebrare” ciò che si è contemplato.
— Un anno di ospitalità. La relazione che hanno tra loro le persone umane non è una coesistenza statica, ma una comunità attiva, dinamica che fa esistere in pienezza i suoi membri. Da questa constatazione possiamo forse intravedere qualche cosa della vita intima di Dio e dedurne qualche insegnamento per la vita comunitaria. È l’anno per ripensare l’ospitalità all’interno delle nostre comunità, per chiedere quella reciprocità che dà a ciascuno un supplemento di essere, un di più cristiano e umano. È il solo modo per sfuggire al pericolo di confinare in “atti di carità” il ben più impegnativo atto d’amore trinitario.
— Un anno di abbandono. Abbandono del peccato, ma abbandono delle certezze confinate nella terrestrità. Il riposo della terra, lo shabbat, proprio dell’anno giubilare, è distacco dal possesso, e abbandono nelle mani della Provvidenza. È il riconoscimento che ogni bene viene dalla presenza di un Dio impegnato con l’uomo: è un darsi un tempo diverso, un riposo per l’uomo, ma in riposo distacco anche nella Chiesa. La Trinità che è il nostro Dio non chiede più cose, più affanni spirituali: ci chiede di stenderci davanti per poter partecipare la sua pace.