La risposta che ci si confessa perché è un sacramento della chiesa non è più così scontata. Tanto che la si potrebbe rovesciare in una domanda provocatoria: perché confessarsi ancora? A venticinque anni dal nuovo ordo poenitentiae, i frutti che ci si attendeva non sono arrivati. I perché sono molti: e stanno, insieme, a proporre il perché di questo dossier. Eppure era, come si vedrà dalle pagine seguenti, una proposta di ampio respiro: sia per la maggiore evidenza dell’aspetto ecclesiale, sia per un più ampio e più diretto riferimento

alla Parola di Dio nell’esame di coscienza, sia per un ventaglio celebrativo più ricco. Scarso senso morale dei cristiani? Impreparazione dei confessori? Una conferma del fai-da-te anche riguardo al pentimento? Facili e perenni scuse per sfuggire al problema. Forse anche qui, come altrove nella pratica pastorale, si è giocata una partita a tempi scaduti: sopravanzati da un cambiamento antropologico che non rispetta i ritmi della ricerca ecclesiale; una risposta a sensibilità religiose (ma non solo: anche psicologiche, anche culturali) che risulta inefficiente non per i contenuti ma per l’assenza di concordanza con il vissuto. A dirla tutta, per la confessione come per l’altro, forse servirebbe riproporre di più, accettare meglio, promuovere convintamente le esperienze di fede, che non possono essere affidate solo ai tavoli dell’intelligenza ecclesiale: con i tempi di sempre del convincimento universale e con la rapidità della trasmutazioni generazionali di oggi, l’arrivare sull’uomo un attimo dopo che è passato non può che essere inevitabile.

Quando si cambia

Le esperienze di fede stanno nelle comunità dei centri e delle periferie: esse segnalano le situazioni della chiesa nel mondo, la cultura del tempo che cambia, le nuove domande degli uomini e delle donne. Muta il senso del peccato, si appiattisce sul senso di colpa. Quando si avverte la durezza della fedeltà quotidiana avviene il passaggio dalla confessione, intesa come secondo battesimo – degli inizi della chiesa – alla confessione personale a datare dai secoli successivi: da una confessione, che aveva la caratteristica di mostrare comunitariamente al mondo dei pagani e dei persecutori la fedeltà battesimale, a un sacramento richiesto per l’individuo che desidera riacquistare la grazia santificante perduta con il peccato quotidiano. Quando si vede che quella istituzione sacramentale è divenuta inadatta, non si insiste, ma si accetta la distanza: e si cambia. Cambia allora l’istituzione quando cambia la descrizione del vissuto cristiano: e dunque lo si affronterà in un rito privatizzato, in un posto sempre più defilato come è il confessionale, e non più al centro del tempio in una celebrazione presieduta dal vescovo. Oggi le masse cristiane si sono allontanate dalla confessione: un certo sollievo dei confessori ingessati per ore e ore nelle vigilie delle grandi feste a distribuire, poco più che a gettone, le assoluzioni, non può assolvere dall’obbligo di chiedersi che sta succedendo.

Voglia di confessarsi

Oggi succede che in televisione, e non nei tribunali, si celebrano le arringhe accusatorie o difensive: e la sentenza di assoluzione (o di condanna) degli spettatori è previa a quella dei giudici. Oggi si va in televisione per confessarsi, e non nelle chiese: e si ottiene ciò che si cerca, un luogo in cui dire e in cui essere ascoltati, un luogo dove trovare complici conferme o irridenti smentite. Quanto questo attenga alla voglia di apparire non ci compete qui. Ma non si può non cogliere questo cambiamento: i peccati che con la vergogna già carica di espiazione si confessavano da bocca a orecchio, vengono gridati a milioni di spettatori. Perché non è venuto meno il bisogno di espiazione. Ci si può arrabbiare o divertire di fronte a trasmissioni televisive che stendono senza pudore alcuno – quando il pudore e le lacrime non sono recitati – la spazzatura umana davanti a tutti. Ma uno che voglia rispondere a perché confessarsi non può non lasciarsene interrogare. Si chiede perdono pubblicamente dei tradimenti; pubblicamente si chiede una riconciliazione; ci si sottopone pubblicamente ad espiazioni che per la dignità umana superano di gran lunga qualsiasi penitenza della chiesa antica; si denunciano i peccati degli altri: dei coniugi che tradiscono, dei genitori che abbandonano i figli, del vicino che sporca con il cane. Si usano le categorie dell’espiazione pubblica, per colpe che stanno sempre in una sfera privata. Si scambia la piazza famelica per l’intimità del salotto. La contrazione della pratica della confessione trova le sue cause anche nella trasformazione del sacramento in un colloquio dalle forti tinte psicologiche, personalistiche? La chiamata al cambiamento, alla conversione, chiede di ripensare gesti e mentalità, che non può non tenere conto delle proprie debolezze caratteriali o psicologiche. È stato il prendere consiglio – che ha per certi versi e per molti secoli, un poco mixato i ruoli tra sacramento e direzione spirituale, per altro fruttuosamente nella formazione di tante coscienze.

Privatezza o prossimità?

D’altronde recenti studi sottolineano la prossimità come fonte di gratificazione: il salotto come forma sociale che stabilisce contatti, che comunica, che traspone sentimenti ed emozioni, e non solo per la sfera amicale. La casa come luogo appartato delle trattazioni politiche, degli scambi culturali, dei meeting professionali. Persino in catechesi si è scoperta la casa come luogo dell’appartenenza religiosa per piccoli gruppi. E lì si compie quella revisione di vita, che altrimenti risulta difficile, per la mancanza di relazioni significative di una comunità ampia, e dunque per la difficoltà a mettere davanti agli altri la propria sofferenza e le proprie gioie cristiane. La prossimità aiuta perciò il riconoscimento del proprio peccato: perché non avviene questa prossimità nel sacramento? È una prossimità con il Signore e la sua Parola, o una prossimità con il confessore che si cerca? Ciò che ha convinto a trasformare ultimamente i confessionali in salottini per colloqui, raggiunge lo scopo di centrare la celebrazione di un sacramento? La vicinanza spaziale, la comunanza spirituale dei membri, persino l’identità colta nella presenza delle diverse generazioni – elementi che fanno la chiesa che prega e implora per i peccati dei fratelli – non vengono ancora più esclusi da una dimensione simbolica che tende a privatizzare quel sacramento? E d’altra parte: in una civiltà che si riscatta dall’individualismo attraverso appartenenze che trasformano le relazioni, si può pensare a un ritorno alla celebrazione del sacramento che abbia caratteristiche pubbliche non preparate da una conveniente accettazione del vicino, foss’anche il cristiano che celebra gli stessi santi segni? (Alcuni riti del nuovo rituale dei battesimi, rispettano la gradualità di una prossimità che sociologicamente non è, quando chiamano a manifestare il proprio cammino catecumenale in assemblee di sconosciuti al proprio vissuto? Hanno la caratteristica del rispetto per gli iniziati, almeno quanto ne hanno per i battezzati di vecchia data?).

Risposta a un perché

Una cosa è certa: non si può più rimandare la risposta a questo perché. Il dossier non potrà che indicare alcune vie d’uscita, a partire dalla storia di ieri e di oggi. E lo fa tenendo chiaro il profondo disagio, quasi l’ossessione di molti di quei pochi che ancora celebrano il sacramento: “Ho fatto fatica a venire”, lo dicono nove cristiani su dieci. E non è sondaggio, è l’esperienza fatta sul campo. Se non ci sono file di penitenti, partendo dal Signore e dalla sua Parola, si può celebrare un sacramento che diventa ciò che è: un riconoscimento del peccato che conduce a una conversione del cuore; e un’assoluzione che diventa lode della misericordia di Dio sentita vicina nella mediazione della chiesa. Ma non ogni volta si può dire in che consiste il peccato, in che cosa il perdono di Dio: e allora si ripronuncia una disaffezione che ritarderà inevitabilmente la voglia di riprendere su di sé la grande misericordia.