Il cristianesimo dovrebbe saper dire la comunione di uomini e di donne che sperimentano la signoria di Gesù di Nazareth, confessandola e testimoniandola. Se veramente godi di quella relazione, la raccomandi a tutti, non dimenticando di ricordare a tutti quali sono le condizioni di quella relazione amabile. A me pare che verbi come confessare, testimoniare, raccomandare e ricordare possano ben delineare che cosa è il cristianesimo a chi ne chiede conto, direttamente, o solamente venendoti ad abitare vicino. Intanto perché non è solo dottrina

 ma è anche la vita che viene messa in gioco; e poi perché quei verbi stabiliscono la relazione senza della quale il cristianesimo sarebbe cosa filosofica, antropologica, mentre è apertura al divino dei sensi dell’uomo fin da questa terra.

 

Quattro verbi

La confessione della fede cristiana è proclamare la diversità di Dio rispetto alle attese degli uomini: una diversità inevitabile per sfuggire all’arroganza così povera di chi il proprio Dio se lo fabbrica con i mezzi della razionalità e delle emozioni. Dunque un Dio Trinità, dunque un Dio che si fa carne per farsi partecipe della storia di ogni uomo. Un Dio che prende su di sé le misure del dolore, e lo indica come strada di vita. Un Dio che ti rassicura con la sua presenza fino alla fine dei secoli, ma non ti toglie la lotta quotidiana al male: l’obbedienza libera e fiduciosa ti restituisce l’intelligenza della verità e con essa la dignità perduta.

 

La testimonianza, che ha il suo apice nel martirio chiesto a qualche cristiano, connota ogni credente. È il martirio del quotidiano portato con la serenità propria di chi ha una speranza che sorregge, ben più grande delle cose che si vivono. La bellezza del vangelo sta nell’accorgersi della grandezza che le piccole cose possono avere: ed evangelizzare è innanzi tutto mostrare che è il piccolo a preparare il grande, è il nascondimento di Nazareth che prepara lo scenario sconvolgente di strade di Palestina percorse con lo sguardo al patibolo della salvezza. Annuncio ai poveri: a chi dispera di una salvezza veramente risolutrice, nella indifferenza o nelle meschinità della vita.

 

Se confessione e testimonianza tessono le relazioni tra i cristiani, la comunità cristiana vive dei doni dello Spirito: gioia, pace, pazienza e mitezza. E questi da sé spingono a raccomandare il cristianesimo. A raccomandare: che è azione convincente, ben lontana da ogni imposizione, da ogni proselitismo e da ogni crociata. È questo verbo che presiede le nuove comunità cristiane che s’impiantano nei paesi di missione: non più forzando su modelli precostituiti, ma richiamando con la forza di un bene vissuto e presentato. È questo verbo che dovrebbe correggere la tristezza di comunità di vecchia evangelizzazione. È la città posta sopra il monte: non isolata nella superbia di un dono, ma perché sia vista, perché attragga, perché stimoli all’imitazione.

 

Ma è indispensabile ricordare le condizioni perché quelle relazioni siano vitali. C’è uno spreco di energie nel fabbricare ogni volta una casa volendo da sé trovare paradigmi e misure. Il cristianesimo ha tre pilastri che lo fondano e lo rendono davvero possibile in ogni tempo: la successione apostolica, la Parola, i sacramenti. La prima a raccordare con gli inizi l’intimità di Gesù con i suoi; la Parola di Dio a fondare la veridicità di ogni parola su Dio detta nel contesto della vita; i sacramenti a visibilizzare la salvezza per non rincorrerla nelle deludenti soluzioni di un momento. Tre pilastri custoditi nella Chiesa e dalla Chiesa messi a disposizione di ogni uomo che cerchi l’incontro con il Signore che l’ha creato e redento. In un tempo di sincretismi religiosi come quello che viviamo, sono tre pilastri che i cristiani dovrebbero continuamente ricordare a se stessi, prima che a chi chiede loro ragione della fede e della speranza che confessano.

 

Per la missione

Ora: ci si dice che la fede è ricevuta per essere trasmessa. Questo mette in missione ogni cristiano. E non tanto perché faccia, ma perché sia. Cioè, perché restituisca la sua vita illuminata da Cristo. E la prima cosa che connota la proposta della fede in Cristo è un “se vuoi”: ben lontano da ogni violenza, da ogni imposizione della propria fede. Il punto, oggi, è dimostrare a chi viene da lontano non che Dio c’è – cosa ovvia ormai – ma come emerge Dio tra le molteplici esperienze della vita, in tutte le esperienze, nessuna esclusa. Come emerge dentro l’avvenimento cristiano, come cambia lo sguardo sulle cose temporali, come misura le relazioni con i diversi da sé. Al cristianesimo è chiesto dal suo Cristo come si può star bene con gli altri senza farli necessariamente passare nelle proprie file. Questa purificazione della Chiesa è il principale motore di quel chiedere perdono per le colpe dei cristiani verso gli uomini di altre religioni che qualcuno ha definito una moda del tempo presente: mentre ne è l’essenza, essendo l’inevitabile principio di una conversione. Ma è anche purificazione al suo interno: Cristo lo si è sepolto lungo i secoli sotto montagne di formule di un frasario clericale, che l’ha reso spesso secondario rispetto a una organizzazione religiosa della fede; così come gli si è impedito di risorgere nel cuore degli uomini, alternandosi in compromessi tra sacro e profano che non hanno migliorato il mondo, mentre non hanno specificato il contenuto della fede. Un esempio classico è rappresentato da quei sondaggi anche recenti che vedono la Chiesa nei primissimi posti nella considerazione della gente. Una Chiesa che rassicura non per ciò che la costituisce – non interessano le verità su chi è davvero il Dio dei cristiani, o per ciò che la rende autentica immagine della salvezza per l’uomo -; ma per le sue funzioni consolatorie, educative, solidariste, che sono conseguenza del costitutivo, e non l’in principio della fede.

Nel relativo del tempo

Se si pone una domanda di senso oggi al cristianesimo, soprattutto da chi viene da lontano, può dipendere o da una notevole difficoltà di chi guarda o da una incongrua oscurità di ciò che è guardato. Dall’una e dall’altra o da ambedue assieme. La nostra sorpresa è la stessa della Chiesa primitiva. Oggi, come allora, coloro che vengono da fuori – i pagani – riconoscono Gesù come Signore, lo adorano e lo servono. Questo potrebbe bastare allo stupore di chi si interroga sulla natura del cristianesimo. Ma forse no, se ci si pone la domanda. Perché non basta? È lo stesso san Paolo a dire in anticipo una risposta che i secoli successivi avrebbero ampiamente confermato. Nella lettera agli Efesini ci fa capire come dovette essere difficile, o almeno non troppo tranquillo, il passaggio della Chiesa ai non-giudei per annunciare anche a loro e per mezzo di loro la salvezza. Una difficoltà che in ogni epoca di transizione si sarebbe ripresentata: la fede, questa fede, la conserviamo per noi, o la offriamo anche agli altri? Non è così ovvia la risposta come potrebbe apparire a spiriti formati alla missione. Perché conservare per sé certamente assicura la purezza più di quanto non riesca a chi, offrendola, la espone inevitabilmente a una assunzione che la rende altra. Ma la fede è come la vita: se la trattieni la perdi, anche se lo fai preoccupato della sua purezza. Il passaggio esige inevitabilmente la rinuncia alle nostre abitudini, alle nostre mentalità, alle nostre istituzioni scambiate per cristiane, se non scambiate addirittura per Cristo. È sempre Dio che precede, che prende l’iniziativa, è lui che chiama, lasciando poi la risposta alla libera corrispondenza dell’uomo che non si può né prevedere nel suo sviluppo né accertare del tutto nella sua integrità finale. Ma chi alla fine è giudice? Non serve forse la Chiesa al Regno? E non scomparirà il cristianesimo nella pienezza raggiunta dell’eternità?

La bellezza del cristianesimo si pronuncia, ieri oggi e sempre, davanti a tutti, con l’assoluta relatività del suo procedere e con l’assoluta presenza del suo Signore.