Lo si dice da subito quando cade un aereo e un treno deraglia. Per scoprire poi che, nel caso, è un guasto non previsto dai costruttori. E quando un uomo uccide la sua donna, o una mamma il suo bambino, si ricorre da subito alla pazzia: per poi scoprire che alcune atrocità avvengono nella lucidità delle persone. Lucidità malata, certo. Un errore nella natura umana. La supponenza che non accetta la fragilità, di qualsiasi natura, nega il mistero su problemi nuovi e complessi che s’affacciano oggi in modo inversamente proporzionale alle scoperte scientifiche e antropologiche. Capire sempre di più: questo il compito; e senza ammanicarsi con chi fa della autosufficienza l’unica regola di vita. Così, provate a dire che il caso Englaro è ben diverso da quei suicidi assistiti che avvengono al di là delle Alpi: troverete sempre un fronzuto radicale (non della radicalità del Vangelo, ma del partito dello zero virgola, quello appunto dell’iperindividualismo) quel radicale dall’ampia chioma e dalla parlantina untuosa, che ci vive di questo mestiere di accompagnatore oltre confine, che pontifica sulla inciviltà del nostro Paese rispetto a quelli “civilissimi” – e che son sempre gli altri, anche se hanno un livello di amoralità che noi, stolti, ci diamo da fare per raggiungerli. D’altronde, bisogna riconoscere che parte fa parte del carattere del nostro Paese: sempre pronto a recitare da ghibellino, purché nei paraggi vi sia qualcuno che sia guelfo. Confondere i piani: tra accanimento terapeutico e eutanasia ci sta l’abisso: e non sono stizze ecclesiastiche, come dicono i “felicemente senza dio”- e anche qualche prete che si è congedato dalla Chiesa, vedendosi, lui, spuntare un dente avvelenato da un proprio fallimento non riconosciuto. Non si tratta qui di paturnie religiose rispetto alla vita: l’etica del desiderio di autorealizzazione su tutto, perfino sulla gestione della vita, comincia dal disconoscere il vuoto di un fondamento comune. Voler diventare padroni dell’inizio della vita così come della sua conclusione;  volersi riconoscere signori della propria affettività nei compromessi matrimoniali – ben altra cosa dai diritti civili da riconoscere a chi imbastisce una relazione – conduce inevitabilmente al nichilismo. Leggere che la seconda causa di morte degli adolescenti, dopo gli incidenti stradali, è il suicidio – o che gli stessi adolescenti in percentuali già scioccanti si danno al gioco d’azzardo – non è il massimo per chi lavora per una società che non sia intrisa da sentimenti di morte. E non è una buona promessa di futuro. Del diritto di morir bene nessuno può dir male. Se ne sono avvalsi il cardinal Martini e il papa Woityla: un “lasciatemi andare” che è poi l’ingresso alla Vita da sempre creduta e sperata; e dunque ci si dia finalmente una normativa che apra alle volontà ultime di chi desidera sottrarsi a un prolungamento artificiale. Ma il darsi la morte non è un diritto. Il suicidio non potrà mai essere un qualcosa riconosciuto da una legge: esso appartiene alla sofferenza e alla coscienza di una insopportabilità che spetta solo a quella persona. Un grande rispetto, ma ben lontano da una connivenza. Solo la pietà non può mancare: la negazione del funerale a Welby è stato un errore tremendo della diocesi romana; e la giustificazione – per cui lo si sarebbe fatto diventare una pubblicità al suicidio – un peggioramento della decisione stessa (da dopo il Concilio, non sono stati forse ammessi a funerali cristiani tutti coloro che si sono tolti la vita?). La Chiesa deve, in nome del Vangelo, non lasciarsi frenare da presumibili strumentalizzazioni, quando di mezzo c’è la misericordia di cui dev’essere garante sempre. Capire il mondo, interpretarne le istanze e dare risposte: è una battaglia che si conduce dentro la Chiesa, non allontanandosene portando a scusa le sue manchevolezze e gli errori, nei secoli e attuali. Le battaglie si fanno sul campo, e non appartandosi sulla collina del proprio comodo conformismo. Siamo in un’epoca di smottamenti, non solo fisici: ci stanno derive che non conducono al bene, idee balzane e ipocrisie che fanno deragliare. Non si può negare una ambiguità della vita. Ma è una ambiguità da penetrare, con il discernimento di chi non si pretende onnisciente: neppure su se stesso. Sennò si diventa errore umano.