Mangiarsi il fegato è il meno che possano aspettarsi i residenti romani. Ma prima di “mangiarselo” potrebbero, sulla memoria dei loro avi, consultare gli aruspici, per sapere il futuro che li aspetta. Anche se c’è il sospetto che gli antichi aruspici fossero i progenitori degli attuali sondaggisti: quelli dicevano non tanto quanto gli dei suggerivano attraverso le viscere degli animali, e delle pecore in particolare; ma quanto il padrone del momento auspicava: per farsi un esercito, per occupare un posto, soprattutto se di dorate poltrone. Dunque qualche attuale aruspice potrebbe declamare un “dalle stelle alle stalle”: che non sarebbe poi un gran vaticinio, dato quel che si è visto là nei mesi del mandato della rinnovata municipalità. Ma giustamente altri potrebbero avvertire di non aver fretta: lasciamoli lavorare, dicono sulle rovistate viscere; che francamente suona come un “lasciamo che precipitino da sé”. Perché tanti sospetti? Solo equivoci che nascono da passionalità scomposte? O seri dubbi sulla capacità di governare di un movimento che è nato per sfasciare gli avversari, mandando a quel paese (per usare un eufemismo) il Paese attuale,  ma senza essersi fatti muscoli per rimettere poi in ordine il nuovo? Alternando – sulle piazze infuocate dal comico fattosi capopolo – eufemismo e onestà, non hanno tenuto conto di un fattore che è di ogni buon governo. E se per davvero vogliono insediarsi con il bagaglio dell’onestà, dovrebbero onestamente riconoscere di non avere competenza. E senza competenza il nuovo non si fa. Anzi, nulla si costruisce: è la competenza di chi è chiamato a fare la signora sindaco (caro redattore rispetta la o e non sostituirla con la a!); ma è la competenza chiesta a un capocantiere e ai suoi muratori; o quella di un’insegnante, o di un giudice. Treccani definisce così: idoneità e autorità di trattare, giudicare, risolvere determinate questioni. Ora, per un sindaco, può essere che l’idoneità gli sia conferita dal voto di maggioranza (sempre che la maggioranza abbia i giusti numeri per dare autorità – il popolo ha sempre ragione? anche quando per accaparrarsi un sacco di farina ne rovescia dieci, in manzoniana memoria?). Ma oltre l’idoneità data da una votazione, dove trova l’autorità per giudicare e risolvere, se non si è fatto le ossa, se non si è rubato il mestiere, come fanno ragazzi e ragazze di bottega per diventare a loro volta parrucchieri o pasticcieri? Da nord a sud, tutti concordi i polemisti nel dire che occorre fare ciò che si sa fare, e non pretendere altro: in Lombardia Ofelè fa el to mesté; nel veneto Pitòr, parla de quadri; il Belli più diffusamente avverte Ognomo hanno d’avé li su mestieri: chi fa er boia, chi er re, chi scopa Roma: sei braghieraro tu? fa’ li braghieri (= i cinti erniari). D’accordo: essere arrivati là dove si vive di notorietà, ma senza competenza, non è solo del movimento dell’eufemismo: se ne sono viste di tutti i colori in tanti e lungo gli anni. Ma certo la pretesa di presentarsi come nuovi avendo di fatto le caratteristiche di sempre, non può passare sotto silenzio. Farsi le ossa, darsi il tempo di un’esperienza che non sia fatta di slogan ma di fatica e sudore, può generare classi dirigenziali veramente nuove. E nel frattempo? Logorarsi su chi viene da lontano, ma è restato appiccicato dal catrame della via? autoreferenzialità, stanchezza, ripetitività, assenza ormai dei bioritmi del rischio? Sì, non è facile per il popolo sano decidere. Ma almeno si può cominciare a pretendere la competenza. Ad alta voce. Per la Polis. E per la Chiesa. Che c’entra? C’entra. Eccome! «Io vi chiedo di fare tutto il possibile per non distruggere la Chiesa con le divisioni, siano ideologiche, siano di cupidigia e di ambizione, siano di gelosie». È il forte appello lanciato da Papa Francesco nella messa celebrata lunedì scorso. Guardatevi in giro, e chiedetevi se si ha, in tante parti, la competenza evangelica nella conduzione di una parrocchia. Una competenza che è innanzi tutto l’umiltà di chi si lascia insegnare da chi l’ha preceduto, e dalla storia di quella comunità. E dunque dal controllo di una propria presunzione che non tiene conto se non di sé e delle proprie ubbie – pastorali, liturgiche, amministrative. Si hanno teorici ammirevoli (?) per quanto scrivono (quando non scrivono ovvietà), ma incapaci di lavoro di squadra, di ascolto, e di quello sguardo che rende capaci di profezia. Dicono (scrivono) che le chiese si svuoterebbero, che le persone si allontanerebbero se … e non vedono che l’emorragia, nelle loro comunità, è in atto, e in modo vistoso per tutti meno che per loro. Resi ciechi da che cosa? se non da una incompetenza favorita da uno scacchiere curiale che non tiene conto delle qualità, e della corrispondenza delle persone ai luoghi; ma solo di curriculum segnati dal serpe della carriera: sempre più avanti, non tenendo conto dei limiti dell’età, e di una senescenza che se non diventa patologica tuttavia è di suo rilassante, e impervia al vero. Non più dunque il passo scattante del Cristo che precede nel seminare buona notizia sulla terra; ma l’arrancare di un don Abbondio sulla mula da cui non si sa scendere. Per l’incompetenza dei cristiani, preti e anche laici, oggi la mula della chiesa non è più nave che solca e trascina. Non ovunque, ma certo da troppe parti.