Sono stato ultimamente disturbato dalle piazze, pur nelle loro marcate differenze di stile e di toni. Nelle piazze si coagulano consensi che, o finiscono nel nulla degli slogan, o si abbruttiscono in una chiamata alle armi contro il nemico. Pretendere il riconoscimento dei propri diritti contro altri, non è mai la buona strada di attenzione al bene comune, di cui i cristiani sono moralmente investiti. Eppure, sembra proprio che i cristiani non si distinguono

 in quella carità politica che pone nel riconoscimento degli altrui bisogni la bontà di una convivenza. Siamo in tempi tristi, si dice da molti. Ma è vero? Più tristi di altri tempi? O sono i tempi cambiati che chiedono una conversione?

Tra un piagnisteo sterile e una chiamata alle crociate, ci può stare una terza scelta per una Chiesa politicamente assediata da destra e da sinistra, in modi difformemente univoci; e fraintesa nella sua significanza autentica da chi si pone al centro: che è poi la massa di chi prende ciò che vuole, e snobba – magari con qualche artefatto senso di colpa – ciò che non gradisce. E la terza scelta si nutre delle domande di senso che ancora in tanti chiedono alla Chiesa di porre sul nascere e sul morire, e sul vivere quotidiano di festa o di fatica; la terza scelta si propone con le sue chiese sparse ovunque sul territorio, le cui porte spalancate sono lì ad invitare all’altro luogo nella rissosità o nella frenesia quotidiana; e si avvale, la terza scelta, delle testimonianze che le vengono da un piccolo gregge fedele al vangelo, e dunque alla propria coerenza della vita. La terza scelta consiste nel chinarsi su questo mondo senza arroganze, e tuttavia con un servizio alla verità delle cose, che interroga senza allontanare, che tollera senza ambiguità. L’enfasi esasperata della libertà individuale mina l’equilibrio di tanti uomini del nostro tempo: la corsa a un consumismo senza misura, quanto contribuisce all’impossibilità denunciata di non arrivare alla fine del mese, di tanti che pure non vivono di misere pensioni? E quanto il ricorso sempre più sfrenato all’uso degli allucinogeni è figliato da questo ripiegamento su di sé che avvicina l’altro per possederlo, e non per incontrarlo? Quanta schiavitù di modelli indecenti per la dignità ci dovremo ancora sorbire dal malcostume che travasa dai pomeriggi televisivi, che insegna a perdere tempo, a sfruculiarsi nel nulla, come strada per sfondare nella vita?

Siamo una Chiesa in minoranza, ma non minore, ci siamo detti nell’ultima sessione del Consiglio di Comunità. E dunque non si rinuncia a chiedere la libertà per tutti, se si mostra che non si può non indicare che quella libertà ha un genitore più alto dei padri terreni: e dunque degli istinti, e delle traiettorie di un tempo che pure dovrà chiudersi. E potrebbe chiudersi su un fallimento generazionale. La terza scelta è la mitezza del Cristo eburneo del Caravaggio: che non disprezza il dubbio e l’attesa di tutti i Tommaso che noi siamo. Ma insieme guida la mano di ciascuno verso la fonte della sua corporeità uccisa e risorta, slabbrata porta dell’amore. Se non sappiamo dire questo a chi si ubriaca e si sperde, che cosa ci stiamo a fare?