Per vari motivi ho avuto un’estate poco vacanziera. Non sempre ciò che si promette, poi s’avvera: basta un contrattempo, o un’urgenza, basta poco e le attese, come si dice in schietto bergamasco, vanno a farsi benedire. Ma un’estate non percepita, al di là del clima, non vuol dire un’estate mancata: la mia è stata un’estate intensa, anomala rispetto all’agenda, e tuttavia piena di un respiro diverso. Non sto certo giustificando quelli che s’attardano
nel lavoro rimandandone il godimento a quando avranno finito di costruire i granai di contenimento di tutta una vita: la stoltezza denunciata dal vangelo ci avvisa da secoli di non cascare, affaticati di sola terra, sulla soglia della notte che ci aspetta. Registro solo di quale appagamento può essere l’imprevisto. Purché lo si viva come un’opportunità, e non come una perdita.
Il poco non è tuttavia sinonimo di niente. Mi sono preso qualche giorno qua e là per visitare mostre, o ad andare per campi. Come l’altro giorno: nella distesa della pianura, che da sempre mi attrae. Ci sono miei amici che non capiscono come si possa amare la pianura: è piatta, insistono con tono di commiserazione. Come se non bastasse il fuso di un campanile, o le colline sagomate dagli alberi da frutto nella loro instancabile mutazione, per esaltare lo spazio tra cielo e terra! E poi, come ormai sapete, il mio paese è nell’angolo acuto di un triangolo capovolto, i cui lati sono due fiumi, e la base un monte: non tanto alto, ma delimita; spalle a quel monte, lo sguardo nella direzione della corsa del fiume, mi sono sentito sempre di pianura: nulla davanti ad interrompere. Che è uno stato d’animo, ancor prima che fisico.
Dicevo dunque dell’altro giorno: mi sono preso un pomeriggio, diretto nella bassa cremasca, alla cripta del duomo di quella città per un requiem da vicino al vescovo Angelo Paravisi, amico mio e di S. Lucia. Dove i campi di granturco fanno da siepe su strade strette, ho bloccato di getto l’auto in uno spiazzo, e mi sono ficcato tra i filari. Un piacere che risale all’infanzia, in quel mese di settembre che stava tra il caldo torrido dell’estate, e il freddo intenso dell’inverno (pieno di nebbia che assaporavo con tutti sensi: con il naso e con le orecchie che s’infiammavano, e con le mani e la bocca che si inumidivano per quell’acquerugiola senza pioggia; per non dire dell’azzardo della vista davanti al grigio di un muro che si poteva attraversare). Ci sono stato un bel po’, come nel tempo da ragazzino: rinchiuso in un verde infinito, labirinto di viottoli senza arrivo, un rifugio da tutto. Il futuro del che cosa diventerò da grande di allora, ormai coniugato sul che cosa sono diventato: non sempre lo spazio è il tempo, ma certo lo racconta.
La coerenza di una vita in che consiste? Nella fissità di una bandiera senza vento, o nell’essere bandiera che vive per il vento che la smuove? Certo: coerenza è scrutare ciò che accade; illuminarlo con la Parola delle Scritture; muoversi nella direzione che lo Spirito indica. Ma, lì, ho staccato una pannocchia, l’ho scartocciata: e mi è venuta voglia di pagnotte di granturco, quelle ormai sparite dalle nostre tavole. Non so bene, ancora, se sono stato coerente. Ma importa saperlo, o viverlo come ci è dato?