La pasqua non finisce mai, per chi si fa discepolo. Non finisce neppure quando le cose che si prevedono non si avverano secondo le attese. E non finisce quando cala il buio della notte. Basta avere il coraggio di buttar lì la propria povertà, nell’invito a restare, a non lasciarci soli. È esso stesso la nostra salvezza. E, infatti, ci si trova rimessi in corsa sulla strada dell’annuncio. È successo a Cleopa e al suo compaesano, i protagonisti di quel giorno

che sembrava ormai aver sotterrato la speranza di cose nuove. È successo in quel villaggio – probabilmente Emmaus arrivato a noi come Emmaus – che ha fatto loro coprire dodici chilometri in un solo giorno, sei ad andare e sei a ritornare. Ma una fatica non spartita a metà; contro le leggi della fisica, più lieve la seconda della prima: con il cuore caldo e la memoria rinfrescata, ma soprattutto per Colui che pure si è intravisto solo nel suo sparire.
Pensate che non sia verosimile che non l’abbiano riconosciuto, prima di quel gesto attorno a cui ci raduniamo anche noi ogni domenica? Eppure, per riconoscerlo non basta avere di lui quanto abbiamo imparato dalla tradizione apostolica, dai testi del vangelo, e dalla storia. Non sono forse lì per tutti? Eppure qualcuno ci arriva e altri no. È vecchia la grande indagine sul Nazareno: se il Gesù conosciuto nella storia sia lo stesso di quello celebrato come il Cristo. Di questi tempi sta solo aumentando tutta una letteratura di quella disputa: e la divulgazione che se ne fa, a volte arrogante, non parte da Emmaus, e dunque non può arrivare al Risorto. Quei due, che prima di quella pasqua pure si sono accompagnati a lui, che hanno mangiato con lui, che l’hanno fissato ammirati mentre parlava sulle rive del lago o sul pianoro di un monte, non lo riconoscono. Per accorgersi – e gli era chiesto di riconoscerlo dopo che era morto crocifisso, che non è cosa da poco – dovevano frequentarlo in altro modo. Nel modo della fede: che trova nelle Scritture il filo rosso di quel destino così incredibile e tuttavia così chiaramente offerto. E in quel gesto, lasciato a futura memoria: perché lì lo si vedesse presente fino alla fine dei secoli.
Credo che il periodo delle catacombe sia stato certo il più difficile, e insieme il più entusiasmante per i cristiani: reietti dalla città, e tuttavia abbondantemente accompagnati dal pane che usciva dal sottosuolo con loro, in loro; e talvolta veniva passato tra le inferriate di una prigione a sostenere chi era stato chiamato a testimoniare con la vita il Risorto. E credo che il nostro tempo viva contesti molto simili. E non solo per i martiri che anche oggi insanguinano di testimonianza alcune regioni del mondo, ma soprattutto per quel travaso d’epoca che vive il fatto cristiano in Occidente: e dunque qui. Dove il Cristo è stato spostato nel sottoscala dei valori: e dunque non è la definitiva speranza. Qui dove il bene non sa più trovare strada nel gran vuoto delle aspirazioni alte. Quelle di cui i genitori cristiani vorrebbero nutrire i propri figli. Quelle di cui i nostri figli non dovrebbero essere privati: di quel gesto, e dell’accompagnamento ad esso.