Dato che la neve d’antan non è venuta – nonostante la implorassi con la ripetizione di una accattivante immagine invernale – questa mia lettera vi racconta del seguito di una stagione che non ha i colori della primavera, come d’altra parte è giusto, dato che al calendario manca ancora un mese; ma che neppure ha avuto i colori dell’inverno. Si è vissuta una quinta stagione, sconosciuta per lo meno alle ultime generazioni,

dentro cui ci metto anche quelli della mia età; e dunque sofferta, come ogni cosa che non è ciò che ti aspetti. Niente neve, niente brina, niente nebbia, se non qualche spolverata senza permanenza; e neppure nutrite giornate piovose a rimettere almeno nell’idillio della stagione di sospensione che l’inverno dovrebbe essere. Una luce inespressiva, fatta di sole senza ombre, di cieli azzurrati senza profondità; e un respiro d’aria, senza il pizzicore del freddo che si annuncia calare dalle montagne. Un insostenibile pesantezza dell’essere: che può essere piaciuta a chi misura il bello dall’utile: meno riscaldamento, meno pagamenti; meno rallentamenti dell’andare, più fretta di acchiappare. Un non inverno. Un’altra stagione.

Una stagione strana, che piaccia o no. Come quella che si vive oggi nella nostra nazione. Dove tutti sono contro tutti, persino contro se stessi: obbligati a spuntare dalla terra prima della dovuta aurora. Come il grano che sarà falciato a san Marco invece che a san Pietro, se continua così. Che non è un acquisto ma una perdita, così dicono i contadini: solo tanta paglia attorno a spighe sfibrate. Una stagione febbricitante quella che oppone l’intolleranza alla conoscenza. Quella che non permette al tempo – che si definisce per il mutare, per il nascere e il morire, per ciò che è e ciò che diventa altro – di darsi le giuste distanze: per superare pregiudizi, e per rendersi conto che anche i nemici possono avere delle buone ragioni. E dunque per sconfiggere il concetto stesso di nemici. Il tempo permette di accorgersi delle cose che cambiano; l’intolleranza invece rinchiude nella propria idea di mondo, negando persino l’evidenza: per non riconoscere all’altro le sue buone ragioni, si rifiuta d’incontrarsi con ciò che è cambiato.

Una stagione nervosa, che tocca anche la Chiesa cattolica. Toccata da chi la vorrebbe fuori gioco rispetto a categorie della vita su cui non può tacere; e attaccata con argomentazioni che rivelano di non volerla conoscere nelle sue fatiche di servizio all’uomo: un’intolleranza che in alcuni è becera, in altri è meschina. Ma toccata, la Chiesa, anche dalla propria tentazione di contare: volendo a tutti i costi vincere anche quando le carte – l’essere minoranza nel paese, un piccolo resto; e il non essere, il non dover essere, un soggetto politico – dovrebbero insegnarle la mansuetudine dei poveri. Se in una cosa i cristiani non devono mai assimilarsi ai propri nemici, è quella di diventare faziosi. O petulanti, nel ripetere a dismisura ciò in cui a buon diritto essi credono, e gli altri no. Repetita non sempre giovano: a volte stufano, e allontanano. Educa più il bello o il bene? È vero che l’uno senza l’altro non c’è: ma il bello è la meta; e il bene – quello che conosciamo, quello che talvolta pretendiamo di aver conosciuto in maniera definitiva – verrà meno nella bellezza che il Signore è; e in cui estingueremo queste nostre temporali passioni.