Sto un poco soffrendo questo Sinodo. È come un aereo che stenta a decollare: appesantito in modo assurdo, continua a rullare sulla pista, e non gli riesce di staccare. Qualche tossicchiante impennatina, ma subito il ricasco sul terreno. È troppo importante un Sinodo, continuo a ripetermi, perché finisca la sua corsa girando in tondo sulle piste di un aeroporto. Appesantito da una mentalità ottocentesca che resiste, nonostante il Vaticano II; gravato per un verso da una deferenza che non ha

 il rispetto della sincerità, e, dall’altro verso, forse da un timore privo di fiducia; irrigidite le ali da chi lo sta di fatto costruendo come un trattato, nuova versione di compendio delle verità generali della Chiesa: una summa per un popolo che non sappia altre lingue oltre il bergamasco. Che non dia cioè per letti, e assunti, i già numerosi testi che la Chiesa universale si è data. E non, invece, la ricerca del “che cosa oggi per noi” che ci rimetta sulle vie del Vangelo da annunciare con accenti rinnovati a gens che ha seppellito, con la cristianità, anche quelle caratteristiche di solidarietà e di attenzione allo straniero che le sono stati propri per secoli; e che nella sazietà attuale ha dimenticato di essere essa stessa nata da emigrazioni e miserie. Con risvolti sulla carità che è la segnaletica della fede. Un Sinodo che in uno slancio simulato di democrazia lascia parlare tutti, anche quelli che non hanno nulla da dire, se non arcaiche solfe o compitini preparati giusto per dire “ci sono anch’io” – è un Sinodo perdente. Dove il soft, il parlar molle, è l’auspicio: non sapendo distinguere tra paventate eventuali rissosità, e la franchezza del dire che riporta ciascuno nella verità delle cose che si inseguono.

Leggete forse le cronache domenicali sul quotidiano dei cattolici bergamaschi (quali?). Ogni giornale ha il diritto di avere una linea. Ma il sentore è che qui la linea sia decisamente di parte, là dove, nei commentini, si rivela lo schierarsi. (Un esempio per tutti, dove si predica la semplicità che sconfina nella semplicioneria: vi pare di vederlo nella processione delle palme, il prete vociare in puro dialetto sù gli olivi, facciamo vedere la nostra festa alla gente – ma se non gli viene spontaneo, non viene il dubbio a quel parroco che c’è qualcosa da rimediare prima? E lo stesso parroco – che Dio sicuramente ha in gloria dato che l’Eco lo invita a tener duro – dice dei suoi fedeli che si alzano e si siedono senza sapere per che cosa lo fanno? A parte la dichiarazione di disistima dell’intelligenza cristiana di quel popolo di cui pure partecipa, dov’è lui quand’è il momento di introdurre quei cristiani ai gesti liturgici; ma non solo, se tanto mi dà tanto?)

È evidente che non si vuole giudicare nessuno. Con la interesse che mi ha mosso fin dall’inizio, con gli interventi diretti e indiretti che ho prodotto, soffro. Non ho ancora parlato pubblicamente nell’aula sinodale. Forse ora lo farò, forse. E solo perché costretto dall’argomento sul quale per incarico ho speso con altri molta passione.

Qualcuno mi dice che lo Spirito santo c’è. Certo che c’è. Ma sta soffrendo anche Lui, da quando Dio si è dato il principio di lasciare libertà totale all’uomo: di ammazzare o di amare. Da quando cioè allo Spirito santo di Dio si è lascio di intervenire ad aggiustare le rotture umane. Esercizio di umiltà? Evidenziazione della fragilità?