Di ottime intenzioni è lastricato l’inferno, si diceva una volta, e molto meno si dice adesso. E che siano buone intenzioni quelle che conducono persone di svariata formazione religiosa a rappresentare l’annuncio evangelico in tv o al cinema, non lo si vuol mettere in dubbio: fino a prova contraria, che però meriterebbe un altro tipo di approccio. Tanto meno lo si dice per mandare comunque qualcuno all’inferno. Il fatto è questo: ci si deve rallegrare di una letteratura per immagini, che trova grande riscontro nei numeri di spettatori, e dunque probabilmente anche in quantità di attesa di risposte religiose? O si deve prendere decisamente le distanze,

a rischio di chiamarsi fuori dai linguaggi usati dal mondo in cui la Chiesa con il suo annuncio vive? Una riflessione si impone, soprattutto all’indomani del lancio della televisione della C.E.I., anche solo per delineare l’auspicabile differenza con le produzioni attualmente sul mercato.

Produzioni che appunto vivono di mercato: la parola chiave della globalizzazione di cui si parla in politica e in economia, è la stessa che presiede in tv alle vite di cappellani di carceri o alla memoria di preti come don Milani. Il religioso fa cassetta, e gli ingredienti non contano: non conta la verità, conta il consumo. Non conta il chi è, ma il che cosa ci si aspetta. La fiction televisiva si nutre dell’appagamento delle certezze richieste dal suo pubblico: nasce così il prete che fa da pendant al maresciallo di paese, al maestro intraprendente, o al medico dei bambini. A rassicurare con il suo volto umano, fatto di desideri, altruismi, amicizie e amori: sacrificati oltretutto quest’ultimi, nel caso del prete, a una sorta di destino inspiegato. Ne esce un prete che non è fuori del suo tempo, come è giusto, ma che appartiene totalmente a questo mondo, come giusto non è. E dunque obbedisce a quella sorta di revival di sentimenti, che sta diventando la matrice della spiritualità moderna, che ti dispensa dal pensare troppo a qualcosa che non sia il tocco, vedo e sento: sia nelle spinte new-age sia nell’agio di religioni esotiche. Un prete che si vede solamente ripiegato sui bisogni del suo prossimo, per i serial televisivi è la concretizzazione di quelle preferenze riconosciute dai sondaggi alla Chiesa, in forza – e solo in forza – dei suoi servizi sociali. Calunniate, purché se ne parli? Ci accontentiamo? Ci basta?

Il problema vero è che alcune cose non appartengono al linguaggio cine-televisivo. E non possono essere viste dall’occhio della camera. Solo là dove il segno è simbolico, e dunque affidato all’interpretazione – del critico più che dello spettatore comune – si è ottenuto qualcosa di buono. Ma dove si descrive, ci si scontra con l’impossibilità di mostrare quanto appartiene a un pre-teologico: a una fede che si nutre di vita, di gesti, di profumi, di mattini di Pasqua e di vespri inondati dalla novità di giovani ordinati presbiteri. Come si può rappresentare l’intensità del presiedere l’Eucarestia o del dare il perdono dei peccati, senza scadere inevitabilmente nella macchietta o nel documentaristico? Come dire il mistero della consolazione o quello della compassione, che ha sulla bocca e nelle mani del prete una forza che non è sua? La consacrazione blasfema del film lo spretato – un’osteria, un gran boccale di vino su cui calano terribili le parole dell’ultima cena di un uomo disperatamente sommerso nel rimorso di ciò che ha perduto – ha una commovente evidenza della fede che nasce dalla descrizione del suo contrario: l’unica possibilità per dire il sacro? Non so. Ma lì, nella descrizione della dissacrazione, il senso del mistero che incombe c’è tutto, a splendere tra derisioni e lazzi.

Questo per quanto riguarda la fiction. Poi c’è tutto il resto. Si può sottolineare la fecondità di documentari e di trasmissioni televisive dove non si indulge alla spettacolarità, e la didascalia accanita dei commentatori non si sovrappone alla bellezza dell’evento, o al mistero che trova i suoi passaggi verso gli occhi e il cuore dello spettatore. Ma i preti in carne e ossa, e i frati, che si mettono in fila nei talk-show come esperti di umanità, o di segreti di Fatima, o della vita su altri pianeti – o di come far gioire le platee in nome dei loro santi fondatori ballando e cantando in antiche tonache – rappresentano forse qualcosa, di quel mistero che non può essere racchiuso per propria natura in tempi e in spazi televisivi? O ne assecondano ancor più il travisamento? Il più delle volte, il coraggio di non esserci è un servizio che si rende alla verità. Perché finalmente la si cercherà dove può essere data, non solo certo nella penombra distesa di una canonica o di un convento.