C’è ancora un pezzo di terra, un pezzo di innocenza, dove si possa annunciare il mistero del Natale, senza che la corrosione delle cose l’abbia già pregiudicato? Il refrain che prende a ogni inizio di dicembre, e sempre più affannosamente ogni anno che passa, è come sfuggire ai luoghi comuni: la festa dei bambini, il giorno dei regali, e speriamo che ci sia la neve. Un affanno finalizzato a raggiungere l’isola che ci deve essere, dove finalmente Natale è “Dio che era dall’altro lato del confine, ed è venuto al di qua, per stare con noi” come scrive R. Guardini. Un affanno che non nega nulla delle cose umane

 che accompagnano questo evento: il giorno della riconciliazione, la bontà che mette al centro il povero, le luci che diradano le nebbie dell’anima ancor prima di cambiare il volto grigio delle città. E tuttavia permane la preoccupazione di riannodare attorno alla verità dell’evento le mille dispersioni: talvolta innocue, talvolta pericolose.

Il New Age è l’esempio più esplosivo di questa pericolosità: brutto e dolce come E.T., la creatura dell’americano Spielberg venuta da non si sa dove, esso raccoglie istanze di consapevolezza di sé, di autorealizzazione, di emozioni e di esaltazione del presente; si nutre di poesia, di romanzi, di musica e di moda; s’infila sinuoso e morbido a scomporre misteri per ricavarne certezze immediate, a fornire ricette di buona vita, frullati di buon senso ad uso di una crescita senza sofferenza. Le idee-forza hanno tutta la debolezza dell’origine: la presunzione di poter essere salvatori di se stessi. Tutto quanto sfugge a sé è mito: buono finché non diventa impegnativo, finché non chiama fuori, a una responsabilità non immediatamente controllabile. Un Dio che si fa carne, attraversando quella terra di nessuno che è il mistero, è necessario che sia ricomposto in termini comprensibili: cristiani sì, ma che capiscano tutto, che possano possedere tutto, con un Dio chiaro e distinto, obbediente alle proprie attese, configurato alle proprie capacità. Alla fine un Dio non cristiano: ma non si dice, non è necessario deciderlo. A quelli che predicano che una sola cosa è necessaria: metterti, tu da solo, le ali d’aquila, per non restare più un pollo – non si può presentare il conto della verità: questa ha delle asprezze che malamente si combinano con il solletico facile delle vanità umane. E poi a che serve? L’orizzonte possibile è solo quello del momento: un carpe diem nutrito di molta malinconia, senza la goliardica gioia d’Orazio.

Con una certa durezza (vocabolo così poco natalizio!), all’inizio di ogni dicembre che incomincia sulla terra, si ribatte dagli addetti ai lavori punto per punto all’andazzo religioso buonista: l’evento cristiano è Gesù, annunciato dall’Angelo a Maria, nato a Betlemme come l’Emanuele, il Dio con noi, per portare a compimento la promessa seguita al dramma iniziale. Viene nella storia degli uomini a dare nuova dignità alla libertà compromessa dal peccato; non promette facile felicità sulla terra, e lo fa vedere attraversando Lui stesso la croce per giungere alla gloria. Rivela la compagnia che Dio è: in Sé e per gli uomini. Dice che la miglior autorealizzazione è dimenticarsi per gli altri; che la miglior consapevolezza è disporsi alla rivelazione che lui porta sulle cose eterne e sul senso di cui queste illuminano le speranze degli uomini. Si presenta come l’unico: la sua resurrezione da morte salva gli uomini dalla costrizione di vite successive, da reincarnazioni protese allo sforzo di autopurificazione.

Si ribatte a una frammentazione di pensiero con un’organicità di fede, dunque, che il debolismo attuale non riesce a soffrire: così si è un po’ cristiani e un po’ indù, perché non si concepisce l’assoluto, né religioso né etico. La celebrazione di un Dio che non viene dall’uomo, e tuttavia si fa uomo, è uno scandalo per i pagani: ma non è rinunciabile, non lo si può accomodare nei salotti bene di chi ritorna a una religione dove tutti si adeguano alle verità di tutti: senza la distinzione che, faticosamente certo, può condurre alla verità tutta intera.

Anche nella Chiesa, in chi siede nei banchi e in chi presiede, il problema sta nello sfuggire a una costruzione del consenso che elimina il dubbio, e che si propone come una tisana per le notti della vita. Che ne direste di un presepe senza Bambino? Con le casette, i ruscelli, le pecorelle e i pastori, gli angeli – tanti angeli a compensarne l’assenza – il bue e l’asino, anche Maria e Giuseppe, ma Lui no. Lui è uno che ha l’ombra della croce che gli attraversa il corpo, Lui ha un mistero nello sguardo che potrebbe portare lontano. Un presepe senza la fragilità e la storicità di quel Bambino, a chi serve?