Pentecoste, nuova Babele

Per capire la Pentecoste, occorre rileggere la paginetta di Babele: un inserimento a interrompere una narrazione di discendenza. Un breve segreto, ma profondo quanto basta a richiamare fin dagli inizi un’apoteosi che si sarebbe consumata “mentre il giorno di Pentecoste stava per finire”: dunque in un tramonto che non vedrà mai la notte, con un fuoco che danza in lingue inestinguibili. Per capire la Pentecoste, occorre ripartire da lì: da quegli uomini che si chiamano insieme per darsi un nome, che si radunano per costruire una città e una torre. E da un Dio che scende

 a vedere: per quanto alta la torre, la meta del cielo degli uomini chiede a Dio di scendere dal suo cielo per vedere. Un Dio non arrabbiato, che si piega sull’opera dell’uomo non per castigare: nulla del testo lo dice. E tuttavia interrompe. Ciò che vede non gli piace: l’abitare dell’uomo, che esclude ogni fraternità nella uniformità di un costruire fine a se stesso, non lo muove a gelosia, come avrebbero interpretato uomini rancorosi verso la divinità, uomini occupati a rubare il fuoco agli dei. Lo muove a compassione. E confonde: per costringere gli uomini a pensare quel modo di essere uomini. Li disperde: perché continuino, nella ricchezza multiforme delle diversità, l’opera della creazione, così ritrovando se stessi nella unicità con cui sono da Dio pensati. Per capire la Pentecoste, occorre ammirare ciò che avviene al tramonto di quel giorno senza tramonto: il miracolo che non si avvera nel sogno di un’unica lingua, ma nel sentire ciascuno parlare la propria lingua. Certo che erano ubriachi: ubriachi dell’antico mosto di Babele, che di padre in figlio ci si era passati in attesa di stapparlo nel giorno della grande rivelazione. E finalmente era lì, la buona novella, per gente di ogni parte, che pure nessuna intimità aveva reso familiari a quel Gesù che in quei giorni avevano visto crocifisso. Nella molteplicità unica della Parola, che non chiedeva più l’unicità della lingua, ma poneva il sigillo della dignità sulla propria lingua, si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?».

Da una domanda nasce la Chiesa. E da un riconoscere come fratelli coloro che fino a poc’anzi erano stranieri. Non c’è Chiesa senza incontro, senza la comunione delle differenze, senza l’unione delle ricchezze: da sempre è scritto. E tuttavia oggi anche nella Chiesa si soffre di quell’esserci senza riconoscersi che fonda il mondo virtuale. Documenti che delineano cristiani ideali, che non stanno da nessuna parte; e dunque indicano itinerari non percorribili. Movimenti che si definiscono secondo contatti selezionati, e frequentazioni riservate a chi la pensa nello stesso modo: un mettersi in divisa che richiama la nostalgia di una stessa lingua, e nega inevitabilmente la fedeltà intera alla Parola. Una fuga nello spiritualismo, nella costruzione di una propria torre verso il cielo, disconoscendo quell’intreccio inestricabile con l’orizzontalità della città terrena: si dialoga con Dio, ma non con i fratelli. Una parola che non è più profetica, che non si fa costruttrice di speranza contraddicendo sicurezze: se Pentecoste è cercare l’incontro per evangelizzare, essa tuttavia diventa impegno a vivere la storia, che continua nella quotidianità oltre il momento di grazia. Uno Spirito senza profezia, che Dio è? Ma una profezia senza persecuzione, che parola è? Gesù stesso si manifesta profeta proprio quando i suoi lo hanno rifiutato. Una Chiesa che a tutti i costi cercasse il consenso, si negherebbe: e negherebbe al mondo la forza che le è stata affidata perché la comunicasse al mondo. L’unicità della Parola rende fatalmente difficile la missione della profezia nella Chiesa: chiede la distanza dai poteri della terra; si esercita nel prevenire contro ogni logica mondana; assume la differenza e la distinzione come condizione di minorità. Senza profezia, i cristiani nella Chiesa si riducono a una organizzazione religiosa, l’autorità fa violenza alle persone, la carità si piega a burocrazia, e la fede si imbeve di ipocrisia.

Nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua finalmente si rivela che Colui che si è fatto carne nulla disprezza dell’uomo: egli è venuto, c’è, ci convoca, e chiede di abitare con noi. Se interrompe è per avvertire; e se disperde, s’accompagna. La profezia fa risalire la Parola che brucia in cuore, a dire oggi quello che non si è saputo ieri. In questo modo, la confusione della vecchia Babele si scopre che è la grazia di Gerusalemme.