Un prete dehoniano, morto recentemente, ripeteva che le nubi passano, il cielo resta: che è la sconfitta del pessimismo arreso al difficile del mondo. E della Chiesa. Abbiamo davanti, a Dio piacendo, una lunga estate. Alcuni meteorologi la prevedono secca, altri piovosa: la saggezza degli antichi suggerisce di annusare il che cosa sarà del giorno dopo la sera prima. Perché le nuvole si fanno e si disfano per minuti cambiamenti, per refoli di vento o per raffiche inattese. In cielo come in terra. Che sia comunque una stagione di decantazione:

è il minimo che ci si può aspettare dopo lunghi mesi di sofferenza civile ed ecclesiale. Non nuova, per vero: a tante altre stagioni è appartenuta la sofferenza del parto, e forse con violenza maggiore. Ma possono essere indebolite le nostre resistenze.

Sono giorni in cui non brilla questa nostra convivenza nazionale, all’arrembaggio del prendere tutto e subito, dell’essere tutti contro tutti, e del gloriarsi quanto più si è cinici. Qualche tempo fa, a proposito di note apparse su questo nostra rivista, ci è stato scritto che nelle parrocchie si parla di Dio e di religione, e non ci si occupa di politica. Ancora! Come se non ci fosse stato consegnato, e proprio a noi cristiani (ai catechisti!), l’impegno a vivere da cittadini responsabili del bene comune; come se non avessimo bisogno di educarci continuamente, noi cristiani, alla convivenza nella città degli uomini: la convivenza della giustizia che precede e fonda una carità autentica. È vero che ciascuno ha una sua sensibilità politica: ma è pure vero che un minimo denominatore comune i cristiani debbono averlo rispetto ai diritti umani. E all’estetica civile. Quando il culto del capo sfiora (sfiora?!) l’asservimento esistenziale (“Se mi dicesse di auto-espellermi, lo farei subito. Lui è tutto”); e per contro, quando è il capo che determina i propri successori in un delfinato da monarchia localista – che è? democrazia costituzionale, o sultanato inaccettabile? E se l’etica si riduce al “così fan tutti” e dunque non vi è un condiviso protocollo di verità che determina il rispetto delle persone e delle situazioni – non debbono i cristiani sentire in sé e gridare l’antico etiam si omnes: anche se tutti, io no? Senza l’arroganza del fariseo che si definisce senza peccato; ma pure senza la ritrosia di chi pretende coltivare la propria fede lontano dalle piazze degli uomini.

E pure i giorni della Chiesa non sono stati felici: quanto frantumati sono stati gli alleluia delle settimane pasquali! E quanto difficile mantenere il sorriso di resurrezione a fronte di esalazioni tombali di banditi cristiani, non banditi! E quanto difensivismo controproducente di alcune frange pure di alta investitura nella Chiesa! Per non dire di assimilazioni politiche di altri prelati, che si piccano tra l’altro di essere anche teologi: come non dubitare che cavalchino il carro dei potenti del momento? È questo il tempo della responsabilità: se la assuma ogni singolo vescovo nella sua chiesa, non demandando più alla comunione del collegio episcopale con il papa ciò che compete alla loro coscienza di pastori. È questo il tempo del discernimento nelle scelte ecclesiali. A che serve che il papa denunci accoratamente il carrierismo nella chiesa, come del tutto improprio rispetto alla purezza evangelica, se poi le trafile di scelta dei vescovi restano le stesse? per premio di compiti in uffici, centrali o diocesani, invece che del mulino macinante della pastorale tradotta nel quotidiano? e per presentazione di persone che inevitabilmente tendono a riprodurre se stesse e i propri orizzonti, in un nuovo nepotismo di ritorno? Non è una questione di colpe dei singoli, ma di una Chiesa che si ritrova ad essere un’Organizzazione per incrostazione di realtà eccedenti, mutuate da collisioni con i poteri del mondo: negando così quel vangelo sine glossa che era caro a Francesco e a chiunque voglia la miglior trasparenza dell’annuncio di Gesù.

Proprio per uscire da una stagione difficile, potrebbe questo essere il momento di metter mano con una radicalità che non tema i contraccolpi di chi s’attacca alle tradizioni, offuscando la Tradizione. “Esci dalle tue opinioni separate per entrare pienamente in quella fede che la Chiesa si gloria di professare. Questo è il modo più autentico di cantare l’Alleluia pasquale”. Dentro il verde tempo liturgico che segna la quotidianità di una lunga estate, Mariano Magrassi, monaco e vescovo nostro contemporaneo, così chiamava a continuare il mistero ricevuto nei giorni dell’alleluia di pentecoste. La Chiesa è bella quando è semper reformanda, come la definì il cardinal Ratzinger: se si misura continuamente con il Vangelo, e se si sa abitata da persone fragili che chiedono incessantemente allo Spirito la forza di rinnovarsi.