Sentirete tutto tra un paio di mesi, e speriamo sia tanto. Perché i cinquant’anni che separano dalla morte di don Primo Mazzolari meritano che lo si rimetta al centro di un’attenzione del popolo cristiano: quello che entra in chiesa e poi va a votare. Perché don Primo, prete sino all’osso, ha incarnato il suo ministero nella inscindibilità tra l’essere cittadini e l’essere cristiani. E lo ha fatto in tempi difficili: una chiesa impaurita dal possibile avvento del comunismo in Italia, e le conseguenti azioni di contrasto che hanno rasentato la fobia. Un maccartismo

trasportato nelle chiese di qui dall’aldilà dell’oceano, fino a sfiorare il rinnegamento del vangelo, e la persecuzione di chi fosse sospettato di connivenza con il nemico. Tempi così, si dirà ancora oggi da chi non vuole che si lavino le colpe di chi credeva che le porte degli inferi potessero prevalere: là dove il comunismo si identificava con l’ateismo, e non con la richiesta di dignità di ogni uomo di fronte ad ogni altro uomo. È capitato a lui, di sentirsi proibire di parlare oltre i confini della parrocchia; di venire ossessivamente richiamato da Roma per scritti, che riletti oggi, non convincono per nulla del perché. È capitato a lui, nel breve volgere di mesi, di essere chiamato dal cardinale di Milano a predicare la grande missione in quella città, e di essere poi biasimato di imprudenza per avere sottoscritto una petizione ai vescovi: si schierassero con i poveri, uscissero dai palazzi per incontrare il bisogno di verità di chi non aveva parola. E scriveva al card. Montini: “Non è facile fare l’uomo libero e il cattolico fedele in questo clima”. E a chi lo rimproverava di lasciarsi turbare dalle vicende storiche della Chiesa e dalla loro interpretazione, poteva rispondere: “L’imperturbabilità è al di là dell’umano, mentre la prova e la sofferenza sono nostre e non risparmiano l’uomo di fede”. Sarà quell’uso della coscienza cristiana, che non riusciranno a concedergli quei cristiani, preti e laici, dallo sguardo breve: lo sguardo di chi concepisce l’obbedienza come un’acquiescenza, e non, come è, un reciproco ascoltarsi. “Cattolico non vuol dire che uno rinunci a pensare con la propria testa là dove l’uso della testa è un dovere dell’uomo, rispettato e consigliato dalla religione … Chi ha paura che la religione possa essere minacciata dal disaccordo dei credenti negli affari temporali, deve avere della Fede e della Chiesa un’idea ben meschina”. Un partito dei cattolici che era cominciato bene, e stava per finire male, gli suggeriva di guardare oltre: ci sarebbero voluti decenni, con un Concilio di mezzo, e scandali nazionali, perché ci si distaccasse dal carro unico e si lasciasse che i cristiani si diffondessero in tutti i gangli della vita civile.

Verace uomo di fiume che trascorse tutta la vita “fra l’argine e il bosco”, come recita il titolo di un suo romanzo, aveva fondato l”Adesso”, una delle esperienze che gli fu ordinato di abbandonare. Eppure, l’intenzione presentata nel primo numero, aveva il sapore profetico di ciò che si stava preparando, e ancora si sta consumando nei nostri giorni, cambiati i protagonisti e peggiorati gli uomini del potere: “A scena, aperta, adesso! E sarebbe un guadagno se anche la democrazia non avesse appreso la grama abitudine di dire che fa, invece di fare senza dire. Anche adesso si recita! Con questa differenza, che invece di un solo e “grande” attore, ve ne sono parecchi. In lingua diversa, dicono press’a poco le stesse parole di ieri, e, Dio non voglia, che pensino di fare le stesse cose o peggio. E siccome ognuno crede di avere un “ruolo” importante ed il palcoscenico è stretto, si danno daffare con la voce e i gomiti. La nostra paura, la paura dei poveri è che dalle voci e dalle gomitate, si passi a ben altro e che il castello di carte crolli di nuovo sulla nostra testa e che la via crucis della cristianità ricominci”. Fraseggiare antico, contemporaneità del tema. Più intonata a un linguaggio poetico la sua produzione di romanzi, anch’essi sottoposti a vagli incomprensibili. Forse perché, come lui stesso scriveva, gli scritti dei parroci rurali fanno paura per la poca educazione nel dire le cose che vedono; però, avvertiva, “ se la cultura pastorale cattolica badasse anche a queste povere voci, forse la cura d’anime nel mondo moderno avrebbe camminato un po’ più verso qualche soluzione meno inconsistente e balorda”. Anticipatore dei grandi temi del Concilio (l’uso della lingua del popolo nella liturgia, la preferenza della Chiesa per i poveri, l’impegno adulto dei cristiani nel mondo) con il beato papa Giovanni vedrà l’inizio di ciò che nelle chiese e sulle piazze aveva predicato: con la veemenza di chi crede contemplando, e agisce senza violenza.

Sentirete, spero, molto parlare di lui: in aprile, sul far della Pasqua, quando il cuore provato di don Primo cessò di battere. Questo è solo un pretesto per avvertire della poesia e della profezia, quando, come oggi a me pare, sono disdegnate o accantonate.