Cardine delle tematiche del giubileo ebraico è lo shabbat, il riposo della terra. Una intuizione che viene dal mondo agricolo, e che comporta una conoscenza delle leggi che regolano l’incremento e il rispetto per il dono del creato. Una indicazione che si è persa nel tempo dell’industriale e del postindustriale sotto la spinta dello sviluppo: che è inteso al di fuori del rispetto e solo nell’accezione dell’accrescimento. Così è nata l’analogia tra progresso e sviluppo: il primo termine a esasperare il secondo, in un crescendo che ci conduce oggi a nodi etici di non facile soluzione; ma che soprattutto induce a quel ritmo della fatica come valore

 che poi si declina inesorabilmente come stress, il male non tanto oscuro della nostra epoca. Non più dunque il riposo dalla e della terra come condizione della crescita umana: ma l’inarrestabile occupazione della stessa, considerata come proprietà da percorrere senza vincoli da un confine all’altro, dalle cime nevose dell’Himalaya alla profondità infuocata del cuore della terra. E, per derivazione, da un capo all’altro dell’essere dell’uomo, che soffre della sofferenza indotta alle leggi del creato. Il concupire spasmodico ha già la sua descrizione nel peccato di Genesi: un andare oltre il dono, un appropriarsi del confine – che è l’albero della vita, piantato a segnare il limite dell’uomo. Con una pena conseguente: che nella norma del giubileo avverte per millenni l’azione dell’uomo, ma che ora sembra non riuscire più ad arrestare la bramosia del nord del mondo. Con le conseguenti pene: un inappagato gigantismo che disarticola e sfianca sempre di più il suolo, inquina l’atmosfera, esasperando le relazioni tra gli uomini e i popoli, per l’allargarsi a dismisura delle forbici di ricchezza e povertà.

Il fino a che punto – che occupa tanta parte delle discussioni e delle contrapposizioni odierne – aveva nello shabbat la propria regola, che noi oggi possiamo chiamare il bene dell’interruzione. Esso ricorda l’inappropriabilità della creazione di Dio, e dunque la Sua signoria, che consegna all’uomo l’universo in amministrazione e non in possesso. E fa discendere da questo prestito che la terra è per lui il coraggio della restituzione: non più paletti a determinare il mio e il tuo, ma un ricomporre le ragioni dell’abitare la terra alla luce del pensiero biblico. La ricostruzione di una umanità più giusta pone i problemi gravi dell’indebitamento di molti popoli poveri: che diventano nelle parole del papa e di molti vescovi un invito chiaro a dare una svolta. Ma è possibile? O rimane nelle piccole utopie di enunciazioni sulle quali c’è già la percezione che non se ne farà nulla? E se anche fosse, sarebbe giusto tacere, chiamare a meno, solo per non rischiare un fallimento di parole autorevoli? Interrompere è ridirsi che “l’uomo vive in una terra che non è sua ma di Dio, e che vive in forza di una gratuità o grazia che è l’amore disinteressato di Dio” (C. Di Sante). Ma chi può essere oggi provocato dalla virtù della gratuità? Forse i cristiani: ma quanti? E in forza di quali mezzi, se politicamente non sanno contare? E se religiosamente non sanno vedere nella discreazione un impedimento alla gloria di Dio, che si manifesta nell’amore che Lui ha per tutti?

Dunque, il bene dell’interruzione non può non riguardare principalmente la vita propria di quella terra che il grembo della Chiesa è. E dire che anch’essa, nei modi di predicazione del Vangelo, ha bisogno di qualche robusta semplificazione, e di qualche restituzione, non può essere letto come un attentato alla istituzione. Non è forse questo il tempo favorevole? Per distaccarsi e giudicare se i mezzi talvolta non sono sproporzionati ai fini; e se una certa ricerca del consenso del mondo non confonde il linguaggio evangelico; e se narrando di povertà davvero si assume il rischio dell’unica bisaccia e dell’unica tunica? Dio ci guardi dai fondamentalismi. Ma ci guardi anche dalle compromissorie giustificazioni. Nella semplicità della vita – e dei modi di vita -, e nella chiarezza della meta – che è l’oltre della terra -, sta la vocazione dei discepoli del Dio fatto uomo. Il richiamo biblico a dichiararsi “forestieri alla terra” è dunque il primario shabbat della Chiesa in questo suo giubileo. Così riconosce che solo Dio fa uscire dalla terra di schiavitù e fa entrare nella terra dove scorre latte e miele; e non si distrae dall’unicità del tesoro sepolto nel campo; e, a partire da se stessa, permette che la giustizia del Signore si mostri verso tutti, e tutti siano chiamati fuori dall’improprio possesso del creato. Che è la liberazione propria dell’anno di grazia del Signore Gesù.