Oltrepassato l’anno del Giubileo, sembra affermarsi l’idea di una chiesa pura e dura. E non è strano che questa invocazione appartenga più al mondo laico che non a quello cattolico? E che, tra i cristiani, appartenga in misura grande ai parroci? Essi più di altri stanno soffrendo la quotidianità di una chiesa che si svuota, in un andare via sommesso, senza particolari ribellioni, per esaurimento. Sentono sulla propria pelle una estraneità alla propria gente:

alcuni la leggono come un utile ripiegamento sul piccolo gregge, altri come una disfatta di millenni di predicazione evangelica. Attribuiscono il fenomeno a cause reali: una necessaria secolarizzazione sfociata nel secolarismo, una sufficienza dell’uomo che rinnega l’umiltà davanti a Dio, le devastanti illusioni dei manipolatori televisivi che attraggono acriticamente nel vortice di un presente totalizzante, privo di passato e di futuro.

Si sentono a disagio nel mestiere di prete: senza fiato nell’avant-in-dré tra laici che volano imperturbabili e quelli che s’attardano in una immobilità asfittica. Talvolta sono causa del loro male, se accentrano tutto nelle proprie mani, o se restringono l’orizzonte ai confini della parrocchia; talvolta sono assediati da fedeli clericalizzati al punto da non volere l’Eucarestia loro servita da mani non sacerdotali, o da rifiutarsi a una catechesi condotta da un laico. Gestiscono una penuria di personale che sta rasentando l’insufficienza rispetto ai servizi della evangelizzazione e della carità: forse mai come oggi è faticato il ricambio per i servizi che le strutture chiedono.

Segregato, ma non separato dal mondo, segno per eccellenza di contraddizione, un parroco vive tra compiti specifici e compiti generici: leggere i segni dei tempi, presiedere la liturgia di una assemblea policroma, commentare le Scritture, affacciarsi con il dono del consiglio sulle interiorità più mistiche, amministrare beni materiali, essere semaforo imparziale ai crocevia per gruppi parrocchiali che suonano il clacson della precedenza, consolare gli afflitti, dispensare i sacramenti, vigilare perché si accudiscano le mense dei poveri, almeno un po’ iniziato alla psicologia da poter capire le pieghe nascoste del suo interlocutore. L’unità di un simile molteplice chiede più qualità di quante pur ne possegga già il migliore dei parroci.

Si può essere fautori di stili e metodi diversi di apostolato. Ma è il momento di non rifugiarsi nelle ovvie ricette, tipo la delega al proprium dei laici, o l’aggiornamento culturale dei preti: dove si è fatto non ha fermato né l’emorragia dei fedeli né la crisi dei parroci. Non basta più, per stimolare i pigri, e chiamare a un passo più fraterno quanti vanno troppo veloci. Le folle che hanno attraversato le porte sante non mostrano di poter resistere alla avanzata della indifferenza. La loro differenza non arriva fino alla prontezza al martirio, o almeno alla fortezza, come tramanda la memoria dei santi delle chiese che ci hanno preceduto. E, tra le folle, magari alla loro testa, i parroci hanno risentito l’invito del testo conciliare steso per loro: “… pronti anche al sacrificio supremo, seguendo l’esempio di quei sacerdoti che anche ai nostri tempi non sono indietreggiati di fronte alla morte” (P.O.13, 1289).

Sono i più prossimi al popolo di Dio, dunque i più bersagliati. Che gli si chieda anche il martirio non è troppo? Di fatto, e tanti soloni in alto e in basso dovrebbero ormai prenderne atto, la loro testimonianza molti la stanno già dando, ventiquattro ore al giorno, se è vero che l’ultimo atto della giornata, dopo il segno della croce, è quello di controllare che il telefono sia pronto a ricevere, nel silenzio talvolta greve di una stanza priva di compagnia. Dunque si può disobbedire a un parroco, come noi stessi talvolta abbiamo scritto: ma dopo averlo guardato con gli occhi di chi sa il peso e la contraddizione, di cui lui, spesso, è solo uno specchio nella comunità.

Oltrepassato ormai il Giubileo, qualcuno ha detto in Roma che occorre parlare dei preti. Certo: ma si dica loro di guardarsi bene dal voler miniaturizzare nelle loro parrocchie lo straordinario di quest’anno. Si ricordi a ciascun prete chi è: simbolo ministeriale del cristiano ospite, spezza il pane, mantiene la memoria della Parola che conta, guida umilmente sui sentieri di salvezza nelle avversità. Che ritorni alla dimensione della casa, lui che vive tra case che non lo desiderano più come un tempo: si raccoglierà dunque nelle cose essenziali, per preparare e rendere possibile l’inevitabile nuovo delle comunità cristiane, nella compagnia di gente che si sente allo stesso modo suo chiamata dal Vangelo alla promessa dello Spirito: Lui, crollino pure i cedri del Libano, non viene meno.