La prima volta della nostra generazione ha sentito riproposta l’espressione evangelica dei segni dei tempi nelle parole di Giovanni XXIII e di Paolo VI, e nel documento conciliare della Gaudium et Spes. Quando cioè si prospettava un’alba radiosa dopo le lacerazione della seconda guerra mondiale, che con la distruzione delle città aveva portato la distruzione della speranza, e dunque delle coscienze. Non saprei dire se c’è stato qualche studio approfondito sull’argomento, ma credo sia stato quel tragico evento a fare da spartiacque della cristianità: come in altre epoche, certo; ma per noi, per quella sorta di cristianesimo diffuso ma non più interiorizzato

che stiamo vivendo, quello fu “il” momento. Un trapasso in segni religiosi non più conditi da quell’affidamento che la fede rappresenta. Una sorta di olimpo delle devozioni, a cui non poteva sfuggire la celebrazione stessa dell’Eucarestia, ma senza più l’afflato di una Provvidenza. E dunque di una presenza. Il tempo del Concilio annuncia un nuovo giorno: ma sarà che il segno dei tempi che si vivono paga esso stesso il divenire di ogni cosa, a distanza di pochi decenni si è costretti a porsi il ri-diventare cristiani, dunque a dichiarare interrotto quel giorno luminoso che si prospettava: di una cristianità finalmente rinnovata dentro il suo gran corpo, e finalmente capace di dialogo sereno e non più riprovante verso l’esterno. E infatti propria dei nostri giorni è una specie di deriva esistenziale. L’uomo vive la precarietà del suo io, delle sue scelte, e nel lavoro e nelle relazioni affettive. Vive l’individualità, che è un bene, come una solitudine: i modelli in voga non sono quelli della gratuità, sono basati sulla competizione, utilitaristici. L’uomo di oggi avendo paura di sé e del proprio futuro, si inventa in definitiva nuove paure che a loro volta alimentano il suo solipsismo: temendo di non essere all’altezza, si condanna alla negazione della speranza. Ri-diventare cristiani è ripartire dalla speranza che ha origine dall’incontro con il Signore.

l’icona di Emmaus

La condizione contemporanea di una nuova evangelizzazione, di un annuncio che si rinnova e rinnova, può essere raccontata dalla serata di Emmaus, e da quei due protagonisti più Uno che l’hanno resa splendente. I primi due protagonisti hanno la condizione dei depressi per un futuro annunciato e fatalmente interrotto. Come tutti i depressi, se la prendono con se stessi e con il mondo intero: incominciando da quello più vicino. Chi sa di greco antico, ci dice che quel verbo “discutevano tra loro” ha tutto il sapore della controversia cieca, del litigio dunque. Ciascuno a difendere le proprie ragioni senza tener conto di quelle dell’altro: per difendere una delusione, per non esporsi ulteriormente dopo quello che considerano un fallimento personale. Perché succede, e non c’è bisogno di psicanalisti per saperlo, che si scarichino sugli altri i propri smacchi: da piccoli e da adulti. Quanto ci fosse, nel contenuto di quella discussione, di afflato di eternità rispetto alle attese umano-mondane, non è chiaro: è invece chiaro che c’è sofferenza, ma non condivisa. Questa condizione – così simile allo scenario di cristianità in cui siamo calati, sia a livello personale sia a livello comunitario – descrive quanto detto di quella deriva esistenziale: alla fine, quei due hanno vissuto sia una delusione professionale (il cambiamento dello stile di vita che si era intravisto) sia, e non da poco, una delusione affettiva: con Gesù avevano sicuramente vissuto in intimità, se poi lo riconosceranno da un gesto riservato solo a pochi e per una volta sola. E avviene per loro un’efficace evangelizzazione da parte di Cristo stesso, quell’uno che si incontra e si fa incontrare sulla strada della loro infelicità. E che cambia loro il percorso: in sintonia con se stessi, in sintonia l’uno con l’altro, nella voglia di ricomporre l’unità con la comunità di Gerusalemme che – la sera di Pasqua! – avevano abbandonato per rifugiarsi nel loro passato, nella piccola città delle consuete occupazioni di prima dell’annuncio. L’inversione di marcia, la “conversione” succede per quelle due cose che hanno il timbro della normalità: il ri-raccontarsi la storia di quei giorni avendo come guida le Scritture, e il pane spezzato. Le due cose che noi oggi compiamo continuamente, ma che non sembrano avere effetti sulla conversione. Il che naturalmente ci chiede se non dobbiamo percorrere la strada di una evangelizzazione energica (se Gesù stesso usa termini come sciocchi e tardi!), perché il nostro cuore si disincrosti e finalmente si scaldi. Si tratta di porre le condizioni perché l’incontro con lui sia sconvolgente, un appuntamento che cambi radicalmente la vita. Ma per questo occorre chiedersi se le nostre eucaristie, nel servizio di parola e nella comunione al pane, siano capaci di scuotere, di convertire, di chiamare alla novità dello sguardo.

 

…e l’icona di Cana

È il bisogno di una pienezza umana l’incontro con Cristo, che avviene nel matrimonio di Cana. Una festa di famiglia: c’era la madre, c’erano gli amici, c’era Gesù. Una pienezza che avviene fuori tempo, fuori di una scansione del segno di redenzione. Ma che avviene. E avviene con una compiutezza che non lascia spazio ad accomodamenti. L’acqua è vino, e vino buono, il migliore. È quel mangiare insieme che chiede condivisione, e che è preludio eucaristico. Gesù si dà in un segno di gioia, in una risposta che non si lascia frenare da schemi, per quanto alti, della sua vocazione salvatrice. Non è detto se quel dono miracoloso abbia fatto scaturire la fede: non è bevendo bene, neppure bevendo il vino che inebria, scaturito dal cuore di Cristo, che nasce la fede. Ma certo è avendo fede, quell’abbandono che mette fiducia nell’altro, che l’uomo riceve l’abbondanza della presenza del Signore nella sua vita. Ri-diventare cristiani si stabilisce dunque esattamente in quel confine che è la fede. Non dunque l’atto in sé, che può essere parola senza suono, ma la vita vissuta nell’abbandono a Dio. Sarebbe utile che ci si interrogasse nelle nostre comunità – si interrogassero tutti gli operatori pastorali, in particolare gli accompagnatori degli adulti – se la coltivazione della fede è preminente e non demandata solo alle pratiche che talvolta non servono la purezza della fede, ma la riducono a gesti e parole che offuscano invece che illuminare. Ri-diventare cristiani è non accettare più che il vino sia annacquato da riti che finiscono in se stessi, da parole che non si imbevono del sapore della storia: e dunque negano l’incarnazione, il farsi carne della Parola. E incarnarsi rivela dolore. Ma, come dice la Scrittura, è la sofferenza che precede la gioia del parto. Sembra invece che, a distanza dal Concilio, si tenda al consenso, che si ripeta il dramma dei profeti che accontentano il popolo, invece che accompagnarlo nel suo esilio. Geremia racconta anche per oggi (Ger 28,1-17) la trasgressione di Anania, il tradimento di chi illude per accattivarsi il proprio popolo. Anche per coloro che – in forza del battesimo e tanto più del loro ministero – sono chiamati al servizio profetico, vale l’avvertimento per i capi mondani: il miglior modo di essere ottimisti è quello di negarsi le notizie; o di lasciarle manipolare dal capo del momento, che è peggio. E la notizia essenziale per i cristiani è che la loro vita discende dal pane e dal vino dell’Eucarestia che celebrano – dalla loro realtà, e dal simbolismo che portano in sé.

 

Alcune linee
Per la Chiesa universale – È il momento di rimettere a fuoco il senso ultimo della sua presenza, che non può lasciarsi gravare dalle tradizioni, da ingessature su modalità di consenso e di apparentamento al mondo che oggi meno di ieri, ma ancora, appesantiscono la sua immagine. Si ridiventa cristiani nel grembo della Chiesa-madre. Non è dunque marginale che essa si presenti con una grande organizzazione, con pattuizioni che sembrano lontane dalla gratuità con cui avviene il dono di Cristo: “perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione?”. Sono le parole delle donne, cui non si dà ascolto il mattino di pasqua, che suonano nuove nei due di Emmaus; ed è il loro annuncio che rimette comunione tra loro che si erano allontanati, e la Chiesa ferma a Gerusalemme. Ridiventare cristiani vuol dire innanzi tutto lasciarsi annunciare da tutti quanto il Signore sta chiedendo al nostro tempo.

Per le chiese particolari – Ridiventare cristiani è assumersi la responsabilità del proprio cammino nel quotidiano della vita di fede. Non si dà misura della risposta a Cristo che non passi attraverso la necessità di “trattare le cose temporali ordinandole secondo Dio” (Con. Vat. II). Il vescovo e i suoi collaboratori nel ministero di predicazione, favoriscono il ridiventare cristiani se promuovono segni sensibili ed efficaci, che scaturiscono dalle qualità simboliche proprie dei sacramenti celebrati. Di fronte alla fatica e alle delusioni non annacquano, non usano l’arrendevole consolazione del presente: ma scaldano il cuore nella prospettiva della speranza che solo la Parola spezzata sa innestare anche nei cuori più duri.

Per ciascun battezzato – Battezzati perché si diventi battezzatori, evangelizzati per essere evangelizzatori. Si ridiventa cristiani abbandonando il legalismo senz’anima, assumendosi la responsabilità del cosmo. Nelle culture protestanti si insiste sul fatto che il lavoro è una vera e propria chiamata: esso armonizza il creato con il Creatore, e ottiene quella compiutezza della salvezza per sé e per il prossimo. È dunque nell’attività quotidiana, nella familiarità del dono che si dà, nell’assunzione dei doveri verso la propria polis, che si supera la pedissequa imitazione di schemi spirituali datati: lì si stabilisce una rinnovata e radicale risposta alla vocazione del discepolato cristiano. E così solamente Emmaus e Cana ridiventano attuali nella verità della celebrazione domenicale del Pane e della Parola.