(introduzione)

 1. Tra affettività, lavoro e festa, tradizione e cittadinanza ci stava la parola fragilità al Convegno ecclesiale di Verona. A racchiudere quelle aree tematiche il termine speranza che per i cristiani si identifica in Cristo Risorto: la cui resurrezione è già oggi speranza per il mondo. Ma come può esserlo la fragilità?

Non si connota forse di una negatività, dato che i suoi sinonimi suonano come debolezza-precarietà-vulnerabilità-finitezza-mortalità? Per potere guardare alla fragilità come una promessa, occorre ricordare, all’inizio di queste pagine, il monito dell’Apostolo: “Noi portiamo questo tesoro in vasi di coccio affinché appaia che questa potenza straordinaria proviene da Dio e non da noi” (2 Cor 4,7).

 2. Fragilità degli individui, e fragilità relazionali connotano le nostre cronache con una invasività a volte insostenibile. Certamente ampliati dalle risonanze mediatiche, tuttavia la noncuranza della vita sembra originare sempre più crimini dentro i muri delle famiglie o per le strade delle città. E se la prima preoccupazione degli italiani sembra essere ormai il tema della sicurezza – oltre quell’enfasi che sembra tutto avvenga solo ora rispetto a secoli precedenti, oltretutto ben cavalcata da partiti alla ricerca di visibilità e dunque di voti – è perché si è deviata la speranza in un soddisfacimento immediato che non vuole farsi interrogare dalla morte e dal male. Perché la speranza resti una promessa occorre che rimandi a un oltre, a un desiderio più alto e affidabile: e non si esaurisca perciò in un presente che da solo diventa necessariamente illusorio.  

 3. La fragilità del nascere si estende fino alla fragilità del morire: e sarebbe davvero negativo pensare alla fragilità solo come un’imperfezione. Essa dice certo una vulnerabilità che non si può disconoscere alla vita umana; ma insieme dice la preziosità che le viene da ciò che le è stato affidato. Ecco perché il grande fallimento della fragilità è il suicidio: soprattutto quando tocca uomini di fede. Fa pensare che non si sia traspirato, nelle proprie pareti di creta, il tesoro ricevuto. Fa pensare che ci si sia piegati alle logiche costruite dalla società che si definisce per un progresso sempre più crescente, appoggiandosi a una rimozione del carattere strutturale della fragilità umana. Fragili dunque uomini, si potrebbe dire proprio a partire da quell’incompiuto che ha fatto nascere la voglia di essere come Dio, percependo con chiarezza di non esserlo. Ed è questa consapevolezza di sé nella fragilità, che si chiede oggi venga riscoperta come la possibile via della salvezza: salvezza già nella quotidianità, ma diretti a una salvezza che solo nell’affidarsi alla promessa del Signore risorto non delude.

 4. Abitare e non rimuovere la fragilità è il modo per eccellenza di non soggiacere alle logiche della forza e della potenza, che diventano devastanti quando ineluttabilmente si scontrano con le diversità che abitano il mondo, o con le debolezze personali. È l’unica via per mettersi sulle strade della verità: del destino proprio e di quello del mondo. Oltre che della Chiesa: se infatti essa si definisce, e non può non farlo, nella fragilità, può scampare al pericolo di diventare onnipotenza terrena, che la allontanerebbe dal suo compito di portatrice di una grazia ricevuta. Essa stessa dunque vaso di creta: con i suoi uomini e i loro pensieri, le loro teologie, le loro preferenze contingenti. Soprattutto la Chiesa: chiamata a leggere – nelle fragilità che si rivelano man mano si sviluppa la storia – la via di un ethos non ingessato, di omissioni che chiedono di essere rimediate, e di incontri che non si possono eludere solo per paura di perdere certezze. “Tutto questo comporta una ‘revisione’ della figura di Chiesa. Ciò non significa che chi ci ha preceduto non aveva capito bene o, ancor peggio, che siano stati meno cristiani di noi. Questo tempo ci dà la possibilità di vivere una figura di Chiesa che corrisponda al vangelo detto oggi e dunque ci aiuta a cogliere, a partire dall’attuale situazione, una dimensione del vangelo magari non sufficientemente evidenziata in altri contesti” (diocesi di Bergamo, laboratorio su fragilità).

 5. C’è una immagine di fragilità come promessa che mi è rimasta negli occhi del cuore. È primavera buia quando Paolo VI presiede il rito di suffragio per la morte dello statista Aldo Moro. Le immagini televisive rimandano la figura di un papa egli stesso alla vigilia della morte. Nella veste liturgica che ancor più lo irrigidisce, e con una voce ferma seppure inferma, si rivolge direttamente al Dio della vita e della morte, e si lamenta con Lui per non aver esaudito la supplica “per l’incolumità di quest’uomo buono, saggio e amico”. È una delle stagioni del terrorismo, che forse più di altro rivela quanto frangibile sia la creta dell’umanità. Eppure, nel lamento di quel papa ci sta tutta la speranza che supera quel dramma, nel grido a Dio che va oltre lo strazio di cocci che sembrano non potersi ricomporre. È una fragilità affidata alla speranza, la stessa che raccontiamo in questo dossier.