Per chi ha vissuto, giovane e attento, la stagione del Concilio nel suo svolgersi, può trovarsi ora di fronte ad interrogativi di non facile risposta. Quale chiesa si raduna la domenica sul vasto orbe terracqueo? Una chiesa universale o una chiesa parcellizzata? Una chiesa di credenti, laici e preti, o una chiesa di chierici, preti e laici? Chi ha vissuto il Concilio si meraviglia che alcuni non l’abbiano digerito: forse non c’erano; o, se c’erano, erano altrove, spersi in una propria cristallizzazione che gli impediva di vedere? Ma: che ne è stato del suo dispiegarsi dentro

 le comunità cristiane? Solo chi è in malafede può negare il cambiamento qualitativo delle assemblee liturgiche – quelle che nella sostanza “fanno” il popolo di Dio convocato, la Chiesa. Ed è malafede opporre a questa indubbio salto di qualità la quantità, intesa come una innegabile riduzione dei frequentanti quelle assemblee: è come se si negasse che la Chiesa risponde al Cristo solo come piccolo resto. Certo grano di lievito o di senape chiamato a diffondersi: ma piccolo nel suo principio.

 

Il multiforme conciliare

Un dato fortissimo su cui si è lavorato troppo poco è stato, in quegli anni sessanta del secolo scorso, nella multiforme presenza anche visiva dell’aula conciliare, la connotazione che assumevano i nomi di alcuni vescovi: Doepfner, Frings, Léger, Suenens, Alfrinks, Lercaro, nomi di uomini, nomi di chiese locali. Nomi che evocavano esperienze e speranze dissimili nella forma ma unite nell’intento di ridare nerbo alla predicazione del Vangelo. “Adesso che ci penso a posteriori, vedo che il punto di partenza è stato proprio la diversità delle singole esperienze che cercava la continuità. Era quindi l’esperienza locale che dava il dinamismo della riflessione” (card. Martini). E adesso? La multiforme assemblea domenicale che si trova di fronte un parroco, è tale perché dinamica o così frazionata da non lasciarsi cucire neppure dal segno di pace? Come apprezzare le diversità, non lasciandole scivolare nelle reciproche opposizioni? Che cosa si deve inventare una comunità e un pastore per ridare un’unica anima alle molte membra, tra loro scoordinate se non divise?

 

Un’analisi di superficie

A mo’ di pistolotto, e dunque con i limiti di cui si chiede scusa in anticipo. Ma la situazione italiana della Chiesa oggi, chi può lasciare indifferente? Il cattolicesimo che si respira ha davvero il soffio dell’universalità che si riconosce nelle pieghe delle differenze, o è un ammasso di opinioni che rasentano talvolta quello scisma sotterraneo di cui si è già ampiamente scritto, ma di cui si è troppo poco preso coscienza? Il fai da te di molti, che improvvisamente compaiono a esigere gesti sacramentali, senza più alcuna memoria di ciò che chiedono, e solo in forza di una “cultura” a cui per altro non si sono mai abbeverati dall’età della cresima… il risentimento inescusabile di chi vive la politica come un fatto non attinente al Vangelo, e non distingue tra ciò che è di Cesare e ciò che si deve denunciare profeticamente nel nome del Signore… il devozionalismo che s’impippa del giudizio ecclesiale e antepone al tocco sacramentale la ricerca sensazionalista dello straordinario, nella rincorsa ai fenomeni dei sanguinanti o dei visionari … il cristianesimo ridotto a una sorta di papismo, nella riduzione al silenzio dei vescovi delle chiese locali, come se il servizio del papa non fosse un servizio di unità delle molteplicità apostoliche, che sono tali se si esprimono… lo schieramento a senso unico delle parti, senza più la criticità che un trentennio di tv commerciale (ben seguita da quella statale) ha distrutto nelle coscienze di milioni di cittadini… il silenzio colpevole di cristiani di fronte ad aberrazioni del servizio pubblico, ed il ricorso agli epiteti di cattocomunisti per chi si sposti di qualche poco dalle manipolazioni di chi detiene il potere… e la conseguente insensibilità che non diventa presa di coscienza civica rispetto a leggi che lasciano fuori i diversi: e non solo emigranti.

 

E’ un magma

Affrontare un magma così vasto non è cosa da poco, per una comunità che si voglia dire cattolica. Una prima domanda a cui si deve dare risposta è: chi ha ragione? Tutti hanno ragione, come qualcuno al ribasso sembra voler affermare? O in un ordine di precedenze, ci sta un prima e un dopo? Senza esclusioni, ma con una chiarezza che diventi servizio alla fede? Di quanta religione ci si deve liberare, per trovare la purezza della parola della fede? Una prima conseguenza di domande come l’ultima, è trovare anche, dentro l’assemblea eucaristica, chi “protestantizza”: una sincerità di pulizia delle molte sovrastrutture, che rasenta anche il toccare l’essenziale del cristianesimo, che è un professare di popolo della parola di Dio l’uno chino sull’altro in tutti i momenti di svolta della vita. E dunque un egualitarismo che vorrebbe ridurre, ad esempio, il servizio di Parola a una dotta lezione biblica che qualunque scriba può tenere; e dunque contestabile allo stesso livello di qualsiasi esegesi (forse nella supposizione che il celebrante dica sé, e non, come dev’essere, una parola che lo attraversa per primo convertendolo a sé, nella persona di Cristo nel cui nome celebra la Parola). Un magma che si snoda negli antipodi: rendendo difficile una risposta unificante, rispettosa ma insieme efficace.

 

C’è una pagina…

… del cardinale Carlo Maria Martini, nei primi tempi del suo ministero, che dice bene il precisarsi di una presenza da vescovo. Una pagina che non solo non rinnega nulla della continuità che si deve alle comunità, ma che prende di petto la varietà per educarla e condurla dall’ideale proprio di un’azione pastorale alla realtà quotidiana che è in movimento. “È come chi, avendo una tela da dipingere, vede ogni particolare interessante non in se stesso, che anzi può essere banale, ma nell’insieme. E anche le varie realtà della Chiesa, movimenti associazioni forme di vita: tutte vanno lette in quest’ottica. La definirei pervasiva, persino difficile da concretare; però penso che è alla base di tutte le scelte concrete che vengono fatte. Non è che io abbia una teoria teologica diversa da quella dei teologi che ne hanno parlato negli ultimi decenni; ma ne ho colto l’importanza vivendoci dentro, costatando che è veramente un tema unificante, e dà un senso a tutte le altre cose. Perché poi si riproduce nelle comunità particolari, e ha sempre l’identica struttura: Parola, Eucarestia, Testimonianza. Tutte queste cose sono sempre riferite alla Chiesa locale; coma la Parola in questa Chiesa si diffonde, come l’Eucarestia è al centro di questa Chiesa, come la Testimonianza parte da questa Eucarestia” (da M. Garzonio, Cardinale a Milano in un mondo che cambia, ed Rizzoli). È la trilogia su cui si può finalmente determinare la priorità cattolica, che è poi cristiana nella sua vocazione primaria. Ma una trilogia che deve determinarsi non secondo canoni di protagonismo escludente ma di umiltà che non si scoraggia.

 

Le risposte

Il luogo primario, rilanciato nella pastorale italiana, è la parrocchia: che è il luogo per eccellenza aperto ad ogni presenza disuguale di questa appartenenza alla chiesa cattolica. Un luogo in cui si propongono i vari servizi di Parola, che sono offerti in modi diversi a tutti i battezzati: tutta la catechesi degli ultimi decenni chiama a una dottrina che non si nutre di apodissi, ma si confronta continuamente con la parola biblica, se ne lascia smuovere, parte dai dubbi esistenziali per calarsi nella consolazione delle promesse che lì sono vive. Potrebbe certo essere scoraggiante che una percentuale a ridosso dello zero-virgola-qualcosa partecipi a questi incontri: e non per una quantità che non è norma rispetto al privilegio della qualità, come si è detto; ma per quelle insignificanze che si creano anche in quel dieci-venti per cento che pure frequenta regolarmente la messa domenicale. Così come l’Eucarestia, celebrata con la sobria solennità che le conviene, diventa il centro aggregante di quelle diversità che talvolta faticano a riconoscersi come appartenenti alla stessa chiesa: e lì una direzione spirituale comunitaria che scende dall’omelia è il momento della provocazione con una propria idea di popolo di Dio testimone della Sua presenza nel mondo. Segni convincenti, la Parola e l’Eucarestia, ma solo per la convinzione di chi li vive, e non perché semplicemente sono dati. Se dunque stiamo tra quelli che ringraziano il Concilio per quanto ha fatto avvenire, la sfida dei mille cattolicesimi è da raccogliere, se appena appena non si ergono ad massimalismi intolleranti. E da accogliere con un coraggio che talvolta chiede la impazienza paziente dei profeti.

 

Quotidianità che avverte

Non avendo la continuità dei tesseramenti o delle diversificate ma concrete adesioni proprie delle associazioni o dei movimenti, la parrocchia resta il luogo più aperto e meno protetto, ma è la struttura che meglio di altre ha il fiuto di come e di che cosa cambia nelle situazioni quotidiane della vita. E non per produrre servizi di assistenza sociale finiti in se stessi, ma che conducano alla Testimonianza di cui si diceva. Una testimonianza che passa attraverso il prendersi cura ma per condurre a una coscienza critica, soprattutto oggi che le istituzioni pubbliche non riescono a riempire il vuoto un tempo riempito dalle famiglie numerose. E non solo per i vecchi che sono abbandonati nella malinconia di ciò che non può essere più, ma per gli adolescenti che pure sono abbandonati nel solipsismo pomeridiano di computer e tv. Quotidianità che chiede invenzioni di nuova pastorale. Dove l’associazionismo è di pochi e l’incontrarsi dei genitori giovani è pressoché escluso dai ritmi pesanti del lavoro, la domenica è oggi il tempo da abitare in maniera nuova. Per poter finalmente incontrarsi e correggersi e costruirsi nell’unità che non lascia nessuno in disparte, che aiuta a camminare verso Dio, senza fare differenze tra le persone: neppure quelle che restano nella propria isolata esperienza “cattolica”.